L’evangelista Luca (10, 25-37) non offre dettagli circa lo spazio e il tempo in cui si svolge la vicenda che si appresta a raccontare; introduce il primo protagonista, un dottore della Legge, anonimo, che balza in piedi e interroga Gesù: “un dottore della Legge si alzò” (v. 25). Ancor prima di esprimere il contenuto della richiesta, si puntualizza lo scopo del suo intervento: intende mettere alla prova Gesù (v. 25). Più che ostilità, però, dalle sue parole emerge la voglia di sondare la tenuta autorevole del suo insegnamento.
L’argomento su cui verte l’interrogazione è la vita eterna: cosa occorre fare per ereditarla? (v.25). Curiosamente Gesù non offre una soluzione in ordine al compimento di un’azione piuttosto che un’altra, né chiede al suo interlocutore di seguirlo. Lo rinvia alle Scritture d’Israele, che egli pure conosce bene: “Cosa è scritto nella Legge? Come intendi?” (v. 26).
Ora sembra che sia Gesù a voler appurare la competenza legale del suo interlocutore, non solo sul piano dei contenuti, ma soprattutto sull’interpretazione della Legge. Questi non si lascia sorprendere e, citando i passi della Scrittura, individua nell’amore a Dio e al prossimo la soluzione al suo quesito di partenza.
L’amore da destinare a Dio coinvolge l’uomo nella sua totalità di cuore, come sede delle scelte, di anima, nel senso di interiorità, e di forza, per esprimere l’energia vitale dell’uomo, e della mente, come espressione della sua intelligenza (v. 27). Il necessario complemento è l’amore del prossimo, a cui il popolo di Israele deve attenersi per imitare la santità divina. Gesù esprime compiacimento per la sua risposta; bisogna vivere e agire in conformità al precetto dell’amore di Dio e del prossimo, per ereditare la vita eterna: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai” (v. 28).
Il dottore della Legge, con l’intento di giustificare la sua condotta o nel desiderio di apparire giusto ai suoi occhi, incalza Gesù con un’altra domanda relativamente al prossimo da amare: “E chi è mio prossimo?” (v. 29). Per il libro del Levitico, il prossimo è l’israelita, il forestiero che dimora in Israele: gli estranei al popolo dell’alleanza non potevano essere considerati prossimo da amare.
Come nel suo stile, Gesù non offre definizioni dogmatiche, ma propone il suo insegnamento in forma di discorso parabolico (vv. 30-35). Il protagonista è un tale che scende da Gerusalemme a Gerico e cade vittima dei briganti i quali, dopo averlo spogliato e bastonato, si allontanano da lui lasciandolo a terra agonizzante.
Per caso, percorrono il medesimo tragitto di strada due funzionari del culto: dapprima un sacerdote e poi un levita. Entrambi si accorgono della presenza dell’uomo ferito, ma evitano di avvicinarsi per prestargli aiuto; preferiscono passare oltre, dall’altra parte della strada.
Sarebbe una forzatura del testo indagare sulle ragioni della loro omissione di soccorso; anzi, se Gesù avesse fatto riferimento a motivazioni legate alla sfera della purità cultuale, avrebbe fornito un alibi plausibile all’opzione del sacerdote e del levita; tacendole, invece, intende attirare l’attenzione del lettore su ciò che fanno, non sulla motivazione che soggiace al loro atteggiamento.
E’ il turno di un samaritano: anziché girare al largo, si avvicina al malcapitato e lo soccorre. La scelta non è casuale: i Samaritani sono ritenuti eretici, perché si sono distaccati dal Tempio di Gerusalemme. In tal senso, l’intento di Gesù è mostrare che lo stile della prossimità, da adottare per chiunque voglia ereditare la vita eterna, prescinde dall’etnia, dalla condizione sociale o dalla confessione religiosa.
Il samaritano non si mostra indifferente; si avvicina e, provando compassione per l’uomo agonizzante, si prodiga fasciando le sue ferite e versando olio, per lenirne le piaghe, e vino per disinfettare. Si fa carico di lui conducendolo in un albergo e provvede a lui; prima di partire il giorno successivo, versa all’albergatore più del dovuto perché possa prendersi cura di lui fino al suo ritorno.
Il dialogo termina con la domanda posta da Gesù al dottore della Legge (v. 36), rovesciando di fatto la prospettiva di prossimità. Così l’interrogativo non è più: chi è il mio prossimo, bensì: per chi sono prossimo? Farsi prossimo significa, letteralmente, “fare compassione”, “chi ha avuto compassione di lui” (v. 37); non si tratta solo di provare un sentimento, per quanto nobile, ma di agire in maniera concreta, imitando la sollecitudine del samaritano, paradossalmente indicato come modello di misericordia.
Nel testo di Luca non emerge una condanna al culto e dei suoi funzionari (sacerdote e levita) da parte di Gesù; l’enfasi è posta sulla compassione del samaritano perché in essa si sintetizza l’autentico amore reso a Dio e al prossimo, che garantisce l’accesso alla vita eterna.
La parabola si conclude con queste parole: “Và e anche tu fa lo stesso” (v. 37). Adesso sappiamo a chi si riferisce questo comando, e chi dobbiamo imitare. L’amare il prossimo, il farsi a lui vicino, è una conseguenza del fatto che Dio ha amato noi e si è fatto vicino a noi. Il secondo comandamento è unito al primo. Noi non dobbiamo amare il prossimo perché Dio ami noi, ma perché Dio ci ha amato.
Adesso tocca a noi: la parabola deve incarnarsi nella nostra vita quotidiana. Quante volte quel levita o quel sacerdote siamo stati noi, che siamo passati oltre e non ci siamo accorti delle problematiche dei nostri fratelli e sorelle. Bisogna sempre guardarsi attorno e prendere consapevolezza delle esigenze delle persone che ci stanno accanto.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Landi, 2022; Cumia, 2022.
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