L’episodio della purificazione (guarigione) dei dieci lebbrosi (Lc. 17, 11-19) si verifica quando Gesù è entrato in un villaggio tra la Samaria, ritenuta una regione scismatica (eretica), e la Galilea, un territorio in cui si sono trasferite genti provenienti dal mondo pagano e si sono mescolate con gli abitanti del luogo dando vita a una popolazione meticcia. La collocazione geografica e il successivo elogio di Gesù al samaritano guarito, sono funzionali al messaggio della teologia lucana: il Cristo è stato riconosciuto come tale dagli stranieri e non dal suo popolo Israele.
Gesù giunge in un villaggio di cui l’evangelista non riporta il nome; si recano al suo cospetto dieci lebbrosi che, come previsto dalle norme che disciplinano la vita degli individui affetti da lebbra (cfr. Lev. 13, 46), si tengono a debita distanza. Non potendo avvicinarlo, alzano la voce verso di lui e lo acclamano come “maestro” (v. 13), invocando pietà per la loro condizione.
Desiderano essere purificati dalla malattia che li affligge e li condanna a vivere in luoghi isolati, privati dagli affetti più cari. A causa della loro situazione, è severamente proibito loro di accedere all’interno del tempio per pregare Dio; così, si rivolgono a Gesù nell’impossibilità di entrare nel luogo dove il Signore ha posto la sua dimora terrena.
Gesù non li tocca, a differenza di quanto aveva fatto in occasione della purificazione del lebbroso a Cafarnao (5, 13); poi li invita ad andare a mostrarsi ai sacerdoti, gli unici deputati a verificare l’effettiva guarigione dalla lebbra e ad autorizzare la loro riammissione nella vita sociale e religiosa. I lebbrosi obbediscono al comando loro impartito: lo hanno acclamato come “maestro”, e ora si fidano della sua parola autorevole. La loro fiducia è stata ben riposta perché, mentre sono ancora in cammino, si accorgono di essere stati guariti (v. 14).
Dei dieci lebbrosi guariti, solo uno trasgredisce il comando di Gesù (v. 15): anziché recarsi presso i sacerdoti, torna indietro. Resosi conto di essere guarito, sceglie di non proseguire il suo cammino, ma ritorna sui suoi passi e glorifica Dio a gran voce per aver ottenuto la guarigione (v. 16). Si prostra col volto a terra ai piedi di Gesù per ringraziarlo: attraverso di lui, il lebbroso guarito dà gloria a Dio.
Infine, l’evangelista riporta l’osservazione che Gesù fa in merito al lebbroso guarito: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (vv. 17-18). Non è la prima volta che un samaritano è indicato come esempio virtuoso, come il protagonista della parabola del “Buon Samaritano” (cfr. 10, 29-37).
Gesù constata che, a fronte dei dieci lebbrosi guariti, solo uno è tornato indietro per glorificare Dio. Costui è uno straniero: il punto di vista adottato è quello del giudeo che guarda al samaritano, ed enfatizza (esalta) la prontezza di uno straniero a dare gloria a Dio. Il motivo dell’estensione della salvezza ai Gentili (pagani) è strettamente correlato alla dimensione cristologica: Gesù è il mediatore che Dio ha consacrato per portare la salvezza a tutte le nazioni; è la luce che illumina il cammino dei popoli. La missione di Gesù e quella della sua Chiesa, ostacolata dai suoi connazionali e correligionari, sarà destinata agli stranieri.
“Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!” (v. 19). Il lebbroso guarito ha dato prova di grande fede: si è fidato della Parola pronunciata da Gesù, e si è diretto in compagnia degli altri per recarsi presso i sacerdoti; tutti si sono accorti di essere stati guariti, ma è l’unico che, guarito, percorre il cammino a ritroso glorificando Dio e ringraziando Gesù per la guarigione ottenuta.
E’ il segno di una fede, quella del lebbroso, che passa dalla richiesta della purificazione alla consapevolezza di essere stato guarito fidandosi della Parola pronunciata da Gesù, fino a divenire azione di gratitudine nei confronti di colui che l’ha liberato dalla piaga che lo escludeva dalla compagnia degli uomini e dalla presenza di Dio. La sua fede lo ha salvato: come la peccatrice (7, 50), l’emoroissa (8, 48) e il cieco (18, 42), ottiene ciò che non ha chiesto (la salvezza), perché la salvezza è un dono gratuito concesso a chi crede in Cristo.
“Io voglio essere salvato! Salvato dalla morte: non tanto io, ma quello che nutre il mio cuore. Cerco chi accolga i miei amori nel suo abbraccio eterno. Salva i miei amori! Guarisci dalla morte chi dorme sotto la terra. Ripara il tempo che ha invecchiato i genitori, e i loro genitori prima di loro, donaci quel mondo dove tutto è nel sempre e per sempre.
Tutti invocano salvezza. E quanto è più straziante invocarla per chi amiamo e non possiamo proteggere. Credere è la sfida che anima la nostra vita, le nostre giornate. Credo che l’acqua possa tornare alla sorgente. Il figlio nella madre, i genitori restituiti ai figli. Il mio amore non può cedere alla visione che non esista sorgente, che tutto scorra verso una foce inesorabile fatta di nulla. Allora pregare, sperare. Vieni, Iddio, vieni. Guarisci le nostre ferite, dona la vita eterna a chi ama, riamato. Solo la tua voce può pronunciare salvezza”.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Landi, 2022; Mencarelli, 2022.
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