Il brano liturgico della quinta domenica di Pasqua (Gv. 13, 31-35), secondo l’opinione comune tra gli studiosi, risente di due diversi generi letterari (il contesto in cui sono nate queste parole di Gesù): i vv. 31-32 sono un frammento della liturgia cristiana primitiva che proclama la gloria del Figlio dell’Uomo, mentre i vv. 34-35 riportano la parte essenziale delle parole di addio di Gesù pronunciate nell’ultima cena con gli apostoli.
Inno al Figlio dell’Uomo (vv. 31-31): “Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Insieme agli studiosi ci chiediamo: a quali avvenimenti si riferiscono questi versetti, dove il verbo “glorificare” viene impiegato prima al passato e poi al futuro? Possiamo intendere questa differenza di tempi in due modi, entrambi plausibili (verosimili). Un primo modo interpreta la gloria acquisita da Cristo nel corso della sua vita terrena (quella trascorsa fin qui), mentre, per quella futura, si fa riferimento alla gloria che gli procureranno la sua passione e la sua risurrezione. Una seconda interpretazione ci rimanda alla gloria che Cristo ha ricevuto al momento della sua passione e della sua risurrezione, e poi a quella gloria che sarà manifestata al momento del ritorno glorioso del Figlio dell’ Uomo alla fine della storia (la parusia).
La seconda interpretazione sembra la più probabile, perché si intona meglio con la prospettiva generale dell’evangelista Giovanni e con il contesto a cui rimanda la gloria del Figlio dell’ Uomo. Gli studiosi, infatti, propendono per l’idea che nelle parole messe sulle labbra di Cristo si vede un’espressione della fede pasquale della chiesa in cui vive l’evangelista. In altre parole, avremmo a che fare con l’espressione della fede e della speranza che sono “ora” quelle dei cristiani: fede nella gloria passata accordata a Gesù nel momento della sua morte e della sua risurrezione, speranza della nuova glorificazione che il Figlio dell’Uomo riceverà senza indugio nella sua prossima parusia (ritorno finale di Gesù). Le parole di Gesù pronunciate durante la sua vita terrena, vengono attualizzate dall’evangelista nella vita della chiesa del suo tempo con la prospettiva della fede pasquale: la qual cosa si comprende benissimo se si legge il capitolo 17 del suo Vangelo, dove “l’ora” indica manifestamente l’epoca successiva alla Pasqua (“Ora…veramente hanno riconosciuto che io sono uscito da te, ed hanno creduto che tu mi hai mandato” Gv. 17, 7-8). Infatti, l’evangelista insiste spesso sul fatto che i discepoli, prima della risurrezione del Signore, non avevano una piena intelligenza delle sue parole e nemmeno una fede giunta a maturità.
Passiamo ora a considerare il contesto probabile in cui sono nati questi versetti sulla gloria del Figlio dell’Uomo: essi appartengono al genere letterario degli inni in uso nella chiesa primitiva. Il che risulta chiaro non solo dalla composizione ritmica di questi due versetti (31-32), ma anche dal loro contenuto. I termini stessi di “gloria” o “glorificare” appartengono al vocabolario tecnico della innologia (preghiera liturgica) cristiana, come pure di quella giudaica: essi, dunque, traggono il loro significato profondo dal contesto della vita liturgica della comunità cristiana. Sono i primi cristiani che lodano Dio per la gloria ottenuta dal Figlio dell’Uomo nel momento della sua Risurrezione e che proclamano la loro speranza in una nuova glorificazione di Gesù attraverso la sua parusia.
Il comandamento nuovo (vv. 33-35): “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri…”. Al centro del “discorso di addio”, che Gesù ha pronunciato agli apostoli durante l’ultima cena, troviamo il tema dell’amore fraterno che diventa l’oggetto di un comandamento nuovo di Gesù. Dove sta la novità del comandamento di Gesù? La risposta più naturale è perché Gesù ci propone di amare anche i nemici oltre quello verso i propri fratelli israeliti (Lev. 19, 18). Non solo. Questo comandamento del mutuo amore è “nuovo” perché i cristiani devono amare secondo una nuova misura, manifestata nella persona di Gesù: occorre amare i fratelli fino a dare la propria vita per loro. Per l’evangelista Giovanni, infatti, la persona di Gesù è la norma essenziale dell’agire del credente. Gesù è “la via” (Gv. 14, 6), non solo a causa del suo ruolo di mediatore, ma anche perché è la regola suprema del discepolo che deve camminare nella via tracciata dal Maestro. “Come io vi ho amato”: amare senza alcun limite (perdonare settanta volte sette), senza alcun vanto di interesse (amare i non amabili, come i peccatori), appunto coma ha fatto Gesù.
Discepoli di Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (v. 35). Nell’amore fraterno il discepolo raggiunge un chiaro esempio di identificazione con Gesù, e anche qui ci troviamo nel contesto della vita della chiesa. Durante la vita terrena di Gesù non v’era infatti bisogno di un segno per riconoscere i suoi discepoli: bastava vedere chi lo ascoltava e chi lo seguiva. Quando Giovanni scrive il suo Vangelo, Gesù non è più sulla terra: come potrà un non credente identificare i discepoli di Gesù di Nazareth? L’unico criterio per riconoscere un cristiano è il suo stile di vita basato essenzialmente sull’amore fraterno. Non basta discutere sull’ideale della carità fraterna, occorre piuttosto che la comunità cristiana, se vuole essere riconosciuta come quella dei discepoli di Gesù, dia la testimonianza di una vita tutta impegnata di mutuo amore. Nessun altro segno può rimpiazzare questo per identificare il cristiano: né i riti, né le leggi che governano la Chiesa, né le formule di confessione di fede. Gli altri dovrebbero dire dei cristiani: “Guardate come si amano”. L’amore fraterno è l’unico segno di identificazione del cristiano che resta valido per tutti i tempi.
Purtroppo anche in seno alla chiesa di Cristo si sono insinuati comportamenti estranei all’amore fraterno: innanzitutto è scomparsa la parola “perdono” tra i cristiani; l’arrivismo e il carrierismo ha intaccato perfino i pastori del gregge di Cristo, per cui tutte le iniziative pastorali sono inficiate di spettacolarizzazione per mettersi in mostra e in concorrenza con gli altri; i gruppi che si costruiscono sulla base di simpatie umane e non per l’amore a Cristo e alla sua chiesa, sono una sconfessione di quel comandamento nuovo che Gesù ci ha lasciato come suo testamento spirituale. Se l’amore fraterno è l’unico criterio per misurare il grado del nostro cristianesimo, allora ce n’è molta di strada da fare per tutti, per i pastori e per il gregge a loro affidato. Buon lavoro!
Bibliografia consultata: Lazure, 1973; Antonioli, 1973.
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