In una intervista con la Fox News Night TV, il 19 ottobre scorso, il presidente americano Donald Trump ha chiesto di sapere tutta la verità sull’assassinio del giornalista Kashoggi nel Consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul. Il giornalista aveva anche la doppia cittadinanza saudita e americana e questa è stata una delle motivazioni ufficiali dell’interessamento Usa. Il delitto, è stato svelato dall’intelligence turca, con filmati (della Cnn), telecamere stradali, intercettazioni telefoniche, come fossimo precipitati in una nuova trama di 007. Tuttavia Trump non ha voluto interrompere le vendite di armi in corso con il regno saudita. Un contratto di 110 miliardi di dollari e altri 350 nei prossimi dieci anni. Business is business.
Un terzo di tutte le armi vendute nel mondo vengono dagli Usa, la metà di queste è diretta verso il Medio Oriente e l’Africa. Un quinto di tutte le esportazioni di armi Usa vanno all’Arabia Saudita. Petrolio contro armi. Inquinamento e guerra: i mali del secolo. Ora sapete perché Trump non crede al riscaldamento del clima. Non gli conviene. Del resto il mercato funziona. Dopo i sauditi i clienti degli americani sono nell’ordine la Polonia, il Giappone, la Romania, il Bahrain, l’Australia, il Regno Unito, gli Emirati Arabi Uniti, la Grecia e Singapore.
Trump visitò l’Arabia Saudita come primo viaggio presidenziale a maggio, dopo la sua investitura. Lo fece anche per scusarsi, cosa che gli sta capitando spesso, per certe dichiarazioni elettorali che aveva pronunciato con leggerezza sull’interdizione all’ingresso negli Stati Uniti di turisti provenienti dall’area saudita, oltre che dai paesi “canaglia” come Siria, Iraq, Libia ecc.… Il principe Muhammad Bin Salman, l’uomo forte di Riyadh si era risentito. Così anche il miliardario Al Walid bin Talal, titolare della Kingdom Holding Company di Riyadh, colossale finanziaria mondiale, con pacchetti di azioni personali in Coca Cola, AOL, Amazon, Apple fino al 2005, Pepsi Cola, Fininvest, il 5% della società di news di Rupert Murdoch, e tanti altri investimenti che sarebbe noioso riportare. Al Walid e Salman non sono tuttavia in buoni rapporti. Il secondo, conservatore, ha dovuto pagare al primo 6 miliardi di dollari come penale per uscire dalla prigionia forzata nel Ritz Carlton Hotel della capitale, venendo a miti consigli col vincitore, modernizzatore e uomo forte del paese. Indubbiamente i rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti d’America sono sempre stati improntati a una feconda alleanza in affari, uniti ideologicamente nella lotta all’Isis e al terrorismo ma poi divisi su tutto quello che riguarda la cultura liberista e formalmente democratica dei secondi e islamico ortodossa dei primi. Giova ricordare che lo stesso Osama Bin Laden, prima di diventare il capo di Al Qaeda, era un investitore saudita, amico della famiglia Bush e che gli attentatori “ufficiali” delle Twin Towers erano tutti sauditi, un caso? Già ai tempi di Bush padre e poi con Bill Clinton, i rapporti sono stati sempre contrassegnati da investimenti e affari per decine e decini di miliardi di dollari. I sauditi hanno giocato su più tavoli con le elezioni USA, finanziando ora l’uno ora l’altro candidato, “mettendo tutte le uova, come dicono gli americani, nello stesso cesto”. Hanno pagato per il 20% la campagna della signora Hillary Clinton. Lo ha affermato lo stesso Mohammed Bin Salman nel 2016, all’agenzia giordana “Petra” ma hanno anche sovvenzionato i repubblicani. Si sostiene che 117 miliardi di dollari del debito americano (Treasury), in netta crescita rispetto agli 82,7 miliardi di dollari registrati solo due anni prima, sia nelle mani dei sauditi. Molto meno dei 1.200 dollari che hanno i cinesi e dei 1.100 in mano ai giapponesi. Però forse quello in mano ai sauditi è una stima in basso.
L’economia saudita è solida, anche se qualche pozzo è in via di esaurimento e cominciano ad avere da tre anni i bilanci in rosso, i loro investimenti sono strategici. Il Fondo Sovrano di Riyadh (PIF) sostiene con propri capitali le imprese americane: il 5% della Tesla e anche della concorrente Lucid Motors. Venti miliardi di dollari in un fondo gestito da Blackstone (infrastrutture), 3,5 miliardi nella Uber, leader dei taxi senza licenza. Sempre lo stesso fondo è il principale finanziatore di tre città turistiche sulle sponde del Mar Rosso; ha 45 miliardi di dollari nella Soft Bank e nuovi investimenti per 170 miliardi pronti per i prossimi tre anni in vari settori dell’economia Usa. Possiede la Sabic al 70% (plastiche) e la Saudi Telecom Company, la Saudi Electricity, il 45% della National Commercial Bank, l Saudi Arabian Mining Company, l’Entertainment Investment Company, il Funds of Funds. In Europa il PIF ha investito nella Krups, Siemens, Arcelor Mittal , il colosso francese che ha comprato l’Ilva di Taranto. Hanno investimenti in Ucraina, in Cina, Pakistan, Russia, Filippine, Sud Africa (Denel armamenti). Non conviene a nessuno pestare loro i piedi.
Senza l’America i sauditi sarebbero perduti, senza i sauditi gli Usa diventerebbero decisamente più poveri, e questo nessuno dei due lo può accettare. Così i sauditi controllano l’alleato, al quale tuttavia affidano le proprie difese dal nemico persiano (sciiti) e dal terrorismo. Per questo hanno attaccato lo Yemen, dove i ribelli Houthi hanno il sostegno dell’Iran. Fonti ufficiali di Riyadh affermano che fino al maggio 2017 sono stati oltre 60 gli attacchi terroristici del Daesh e di Al Qaeda. Più di 200 sauditi sono morti tra polizia e civili, uccisi dai terroristi islamici. A riprova che le prime vittime del terrorismo islamico sono proprio gli islamici. L’altra spina nel fianco della regione arabica per i sauditi è la guerra in Siria, dove il loro nemico storico Bashar Al Assad (di famiglia Alawita, ramo sciita) è alleato dei Russi. Con la scusa di colpire il califfato i sauditi non hanno disdegnato di andare colpire questa alleanza, che vedono come il fumo negli occhi, anche se con Vladimir Putin mantengono buone relazioni e all’occorrenza fanno affari. Lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme ha di fatto poi rafforzato l’alleanza tra Siria, Iran e Russia contro Israele, Usa e Arabia Saudita.
Il principe bin Salman é stato insignito del ruolo di reggente dal padre, Re Salmán bin Abdulaziz, nel giugno dell’anno scorso a soli 31 anni. Il ragazzo è ambizioso e vuole affrancare il suo paese dalla dipendenza dal petrolio, modernizzare, puntare su fonti energetiche rinnovabili, sul turismo e l’hi-tech. Ma per conseguire questo sogno ha bisogno dell’alleanza con l’Occidente e di dare dei segnali concreti di innovazione. Non può fare a meno degli investimenti all’estero e anche delle riforme interne. Ha due nemici l’Iran sciita e l’opposizione interna. Quando si toccano i privilegi ci si fanno dei nemici. Il principe attacca la burocrazia e la corruzione, due mali che in Italia conosciamo bene e ne conosciamo anche la capacità di reazione. Chissà che l’omicidio Kashoggi, non sia stato consigliato da qualche amico/nemico. Certo è capitato proprio al momento giusto.
Nel contesto complicato di relazioni interdipendenti tra occidentali e sauditi, succede che Kashoggi decide di sposarsi e di andare al consolato per i documenti. Sposarsi non sempre è un buon affare e i sauditi organizzano una trappola. Un commando di 15 uomini giunti apposta dal paese arabo, alla guida di Maher Abdulaziz Mutreb, guardia del corpo personale del principe saudita, lo uccide. Kashoggi uscirà dal consolato a pezzi.
Ormai è evidente, anche per Trump, che l’omicidio sia stato ordinato dallo stesso principe Salman figlio, il reggente, l’innovatore. Colui che sta cercando di cambiare il volto dell’Arabia Saudita per portarla dal Medioevo ai tempi nostri, almeno per quel che riguarda le libertà civili. Trump parla a voce alta di sanzioni contro i colpevoli dell’omicidio Kashoggi, non appena sarà confermato dalla CIA il nome del responsabile. Nel sito “Formiche” Giancarlo Elia Valori sostiene: “Il principe reggente dell’Arabia è un forte investitore nelle industrie della Silicon Valley, che sta integrando nel Saudi Giga Projects. Con un cambio di rotta statunitense la linea degli investimenti sauditi potrebbe dirigersi, invece che verso gli Usa e la Ue, nei Paesi come Cina, Russia e India” Tu minacci a me e io minaccio a te, direbbero a Forcella. Nel panorama mondiale non è diverso.
Nell’area della penisola in molti si sono affrettati a dare il sostegno al principe waabita, contro le accuse turche. Il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah Bin Zayed al Nayhan, il Segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo Abdullah Al Zayani e perfino l’Oman che si era fin qui mantenuto equidistante nella contesa con l’Iran e il segretario generale della Lega Araba. Quale arma resterebbe al principe saudita in caso di sanzioni americane? Il petrolio, chiaro.
Un aumento del prezzo del petrolio metterebbe in ginocchio l’economia Usa ma ancora di più quella degli Stati Europei. Qualcuno potrebbe pensare che il gas e il petrolio russo farebbe da contraltare ma Putin, alleato dell’Opec sunnita, non perderebbe l’occasione di aumentare il prezzo del suo ricercatissimo prodotto, mettendo a sua volta in crisi gran parte dell’Europa. Un aumento del prezzo al barile provocherebbe un aumento della produttività: prezzi alti generano offerta maggiore! Intanto però l’amministratore di JP Morgan & Chase, Jamie Dimon e il presidente Ford Motor, Bill Ford, hanno annullato la loro presenza per una conferenza con investitori sauditi per questo fine novembre. Forse anche Goldman Sachs, Mastercard e Bank of America eviteranno di partecipare.
Il principale esportatore dell’oro nero, Arabia Saudita e il principale acquirente, Stati Uniti, stanno mettendo in ansia i mercati, in seguito a questo omicidio del giornalista saudi-americano che lavorava per il Washington Post, molto critico del principe Salman. Gli analisti del settore ipotizzano che il petrolio potrebbe schizzare in alto ma addirittura il general manager della emittente tv Al Arabya Turki Aldakhil, a fare la previsione “esplosiva”. “Se vengono imposte le sanzioni Usa contro l’Arabia Saudita, sarebbe un disastro economico che sconvolgerebbe il mondo intero”, scrive in un editoriale che porta la sua firma. “Se il prezzo del petrolio a 80 dollari Usa fa arrabbiare il presidente Trump, nessuno può escludere che il prezzo raggiunga i 100 dollari, o anche i 200 $, se non il doppio di quella cifra.”
Le accuse di Kashoggi dalle pagine del Washington Post contro la finta innovazione del principe saudita, sono state la sua condanna a morte. Ma quell’omicidio è stato un errore che il principe rischia di pagare salato. Non saranno i suoi alleati a troncare le relazioni economiche con l’Arabia Saudita, abbiamo capito che le minacce resteranno tali, non conviene a nessuno spingersi oltre. Ma saranno i suoi parenti, i circa 7.000 membri della corte, a provocarne la sua defenestrazione probabilmente, utilizzando magari proprio quelle innovazioni che hanno fatto sorridere l’Occidente e infastidito gli ortodossi islamici. Le donne ora possono guidare a Riyadh, certo. Si parla già che possano rinunciare all’ abaya, il velo nero che le copre dalla testa ai piedi e che alcune indossano, per protesta, al contrario. Non so le innovazioni –pure indispensabili – a Riyadh abbiano le ore contate, ma certo il principe comincia ad essere scomodo per la stessa casa regnante. La sua “Davos nel deserto” rischia di andare davvero deserta. “Ieri ha annunciato il forfait un altro gigante economico, Airbus, che si unisce a diverse grandi aziende e banche, da Uber a Hsbc, e ai big dell’editoria Usa, tra cui Cnn e New York Times. Il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, anche lui tra i disertori dell’evento, sarà però a fine mese a un incontro sulla lotta al terrorismo a Riad. E sul caso alzano la voce anche gli avversari dell’Arabia Saudita in Medio Oriente. Dal Libano il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, l’ha invitata a prendere una decisione “coraggiosa” e porre fine alla guerra in Yemen, sostenendo che “l’immagine nel mondo dell’Arabia Saudita è al suo minimo storico”. (Nicola Graziani, AGI, 10 ottobre 2018).
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