L’episodio (Mc. 6, 1-6) segna una svolta nell’attività di Gesù, perché questa è l’ultima volta che insegna in una sinagoga: d’ora in poi lo farà sempre all’aperto e in case private. Presentandosi fra i suoi compaesani (a Nazaret) nella veste nuova di “rabbi” (maestro) sorprende tutti: “si mise a insegnare” (v. 2). Il sabato era il giorno dedicato all’ascolto della parola di Dio, alla preghiera e all’istruzione che si svolgevano in sinagoga. La reazione degli ascoltatori all’insegnamento di Gesù è riferita così dall’evangelista: “Molti, ascoltando, rimanevano stupiti” (v. 2). Lo sbigottimento si esprime in cinque domande, riferendole a “costui” con un termine dispregiativo, che prepara un insulto più sottile e beffardo.
La prima domanda insinua dubbi su Gesù come maestro: “Da dove gli vengono queste cose?” (v. 2). La seconda domanda riguarda la “sapienza” data a Gesù: essa indica che l’autore di tale sapienza è Dio; Gesù ne è solo il messaggero. La terza domanda riguarda “i prodigi compiuti dalle sue mani” (v. 2), cioè gli atti concreti di potenza, la capacità di fare i prodigi avvenuti fuori Nazaret. Anche di essi si pone in dubbio la provenienza e la qualità: chi agisce attraverso di lui? I presenti respingono la pretesa identità messianica che tali prodigi contengono: se egli non opera atti messianici con la potenza di Dio, non può essere dichiarato Messia. La quarta e quinta domanda si servono dell’origine di Gesù per argomentare contro di lui: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria…le sue sorelle non stanno qui da noi?” (v. 3). Gesù è l’artigiano che tutti conoscono, di cui citano per nome la madre, il fratello e le sorelle che abitano là.
Colpisce l’identificazione di Gesù come “figlio di Maria” (v. 3): egli non viene presentato, come di solito accade nella tradizione giudaica, attraverso il padre, bensì attraverso sua madre. Nell’espressione “figlio di Maria” risalta la persona di Maria e il dato storico innegabile dell’incarnazione: Gesù è suo figlio. Chi sono, invece, “i fratelli e le sorelle” di Gesù? (v. 3). Su questo punto la posizione delle chiese separate (protestantesimo) è che si tratti di fratelli e sorelle carnali, perciò danno un’interpretazione differente rispetto a quella della chiesa cattolica e dell’antica tradizione cristiana, che ha sempre visto in questi fratelli e sorelle soltanto dei congiunti a vario grado di parentela, come i “cugini”. L’interpretazione cattolica ha a suo favore, oltre alla Tradizione, il largo significato del termine “fratello” e “sorella” nelle lingue semitiche, e anche la testimonianza dei vangeli, dai quali non risulta che Maria e Giuseppe abbiano avuto altri figli e, anzi, per il periodo anteriore alla nascita di Gesù lo escludono positivamente.
Infine, Gesù stesso vuole creare una nuova “famiglia spirituale”: lasciando la sua casa dichiara che nella nuova famiglia possono trovare posto tutti, compresi i parenti, a condizione di ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio da lui annunciata, come coloro che sedevano attorno a lui, che egli chiama “madre, fratelli e sorelle” (Mc. 3, 33-35).
E’ la relazione con Gesù a stabilire un nuovo ordine di maternità, di fratellanza e sorellanza. Nella sinagoga dopo aver ascoltato Gesù, i presenti “si scandalizzavano” (v. 3): il verbo imperfetto descrive bene il progressivo accendersi degli animi. E’ questo un atteggiamento che diventa un ostacolo a credere in lui come inviato di Dio. Al rifiuto dei suoi concittadini Gesù reagisce enunciando un principio di carattere proverbiale, che contiene la coscienza della propria identità profetica: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (v. 4).
La triade patria-parenti-casa indica come il detto si riferisca al disprezzo del messaggero di Dio come suo profeta: questa è la prima e unica volta in Marco che Gesù non ha compiuto molti miracoli e “si meravigliava della loro incredulità” (v. 6). L’imperfetto ha in questo caso un valore durativo, denota uno stato d’animo presente lungo tutto l’episodio.
La reazione di scandalo che gli abitanti di Nazaret provano nei confronti di Gesù esprime la falsa religiosità di chi si rifiuta di riconoscere l’intervento di Dio nella semplicità, nella quotidianità e nella povertà. Gli riconoscono certamente una notevole sapienza e una rilevante capacità taumaturgica (fare miracoli), ma la vera questione è che essi non possono accettare che egli parli con autorità sulla loro vita e sui loro comportamenti. Una cosa sola non riuscivano a sopportare: che un uomo come lui, che tutti conoscevano benissimo, potesse però avere autorità su di loro, ossia che pretendesse in nome di Dio un cambiamento della loro vita, del loro cuore, dei loro sentimenti.
Le domande che si fanno sono francamente denigratorie: si sminuisce il soggetto comparandolo con i membri della sua famiglia. Insomma, per Gesù il riferimento al suo mestiere, accanto al riferimento ai suoi legami familiari, costituisce per la gente del suo villaggio una valida ragione per non riconoscergli molta autorità religiosa. La presunzione di conoscere Gesù blocca questa gente ad andare più in profondità, rifiutando i semi rivoluzionari che egli porta e si scandalizzano. Il loro sbaglio consiste nell’accogliere Gesù come se fosse un eroe o una personalità famosa che ritorna in patria dopo un periodo di lontananza. Per tutti costoro il divino dimora solo nella potenza, nei segni, nel trionfo. L’incarnazione è, invece la celebrazione dell’ingresso di Dio nell’umanità fino al limite estremo, una sofferenza e una morte ignominiosa.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Cumia, 2021.
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