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Il Dio dei vivi

L’episodio dei Sadducei (Lc. 20, 27-38) che intendono mettere in ridicolo la risurrezione dei morti con la loro obiezione razionale solo in apparenza, viene narrato da tutti e tre gli evangelisti sinottici (Matteo, Marco e Luca), i quali lo collocano nel medesimo contesto. La vita terrena di Gesù ha ormai raggiunto il suo termine. Questo brano si inserisce nelle serie di controversie che sorgono in questo periodo di tempo tra Gesù e i suoi avversari, e dove Gesù chiude la bocca ai suoi avversari utilizzando gli argomenti che si fondano sulle Scritture e invitando i suoi discepoli alla lettura cristiana dell’Antico Testamento.

Chi sono i Sadducei che interrogano Gesù sulla risurrezione dei morti? Appartengono alla classe dei gran sacerdoti, di origine aristocratica. Contrariamente ai Farisei, essi sono “lassisti” (non credenti) in dottrina (negano la risurrezione dei morti e l’esistenza degli angeli), e rigoristi (rigidi) nella condotta morale, almeno verso gli altri. Conservatori e integristi, non ammettono che la fede possa progredire e arricchirsi di nuove conquiste. Della Scrittura riconoscono solo la legge di Mosè. Per niente scrupolosi, si adattano molto bene all’occupazione romana, che in definitiva li lascia al potere: il gran sacerdote Caifa otterrà da Pilato la condanna di Gesù. Sono questi i personaggi poco simpatici che vogliono tendere un tranello a Gesù.

L’interrogazione dei Sadducei è abile: partono da una legge ben conosciuta dal popolo (la legge del levirato: Dt. 25, 5-10), intesa a garantire ad ogni maschio la discendenza. Il cognato deve sposare la cognata quando il marito di lei muore senza averle dato dei figli maschi, al fine di suscitare una posterità al fratello defunto. Questa legge intendeva prolungare il proprio nome come l’unico modo per “sopravvivere” alla propria morte. Partendo da questa legge, i Sadducei costruiscono un “caso” spingendo alle estreme conseguenze un errore in cui cadiamo talvolta anche noi e lo sottopongono a Gesù. Infatti, interrogandoci sulle modalità della vita dopo la morte, non le immaginiamo analoghe a quelle che viviamo su questa terra, quasi che la vita dopo la morte fosse la semplice continuazione della vita presente? La risposta di Gesù ci fa anzitutto prendere coscienza di questo errore, prima di provarci che la fede nella risurrezione non è assolutamente un accessorio ma il cuore della nostra fede in Dio.

La vita futura non è modellata sulla vita presente, è totalmente trasfigurata, è una vita in Dio, nella lode, come quella degli angeli. Ci sono due mondi e la storia è divisa in due tempi, a cominciare dal secondo secolo dopo Cristo: il mondo presente finirà con la venuta del Messia, il quale inaugura il mondo futuro. I due mondi si oppongono quindi quanto al tempo e quanto alla qualità: il primo è peccatore e il secondo è perfetto, è dei giusti “giudicati degni” (v. 35). Ancora una volta, l’evangelista Luca ci stimola a vivere “oggi” la sua passione per partecipare alla sua risurrezione: entrati in questo mondo mediante la nascita, dobbiamo passare con Gesù attraverso la croce e la risurrezione, per ottenere l’altro mondo.

“Sono come angeli e sono figli di Dio” (v. 36). Luca vuole evitare che i suoi lettori greci, reticenti di fronte ad una risurrezione del corpo, possano pensare a dei puri spiriti o a delle anime separate. Ma non si ferma qui, perché egli aggiunge che saremo figli di Dio. L’evangelista prima ci mostra il compimento di tutto ciò che speravamo fondandoci sulla Scrittura, e noi ci riteniamo paghi. Ma subito dopo aggiunge che è ancora più bello di quanto possiamo immaginare. Non vivremo soltanto alla presenza di Dio nel servizio della lode, uguali agli angeli, ma saremo introdotti nella sua intimità come figli, o meglio, come suo Figlio. Saremo figli di Dio, perché “figli della risurrezione” (v. 36): essa costituisce realmente il passaggio alla vita di Dio.

Siamo ben lontani dalla ridicola domanda dei Sadducei! Essi volevano trascinare Gesù sul terreno della banalità pruriginosa, mentre egli ci immerge totalmente nel cuore della fede. Certo, rimane l’oscurità riguardo al “come” della vita dei risorti. Ma questo genere di speculazione non ci deve interessare. L’essenziale è altrove: non solo si tratta di una vita nuova, inimmaginabile, vissuta nella lode alla presenza di Dio (uguali agli angeli), ma è la vita dei figli di Dio. Per esserne ritenuti degni, bisogna accettare di passare, con Cristo, attraverso la morte, per giungere, in lui, nel vita di risuscitati.

Tuttavia, Gesù non si ferma qui a dimostrare soltanto l’errore dei Sadducei sul “come” della vita futura; ora, partendo dalla Scrittura, spiega loro il torto di rifiutare di credere nella risurrezione: “Egli non è Dio dei morti, ma dei vivi” (V. 38). Il ragionamento di Gesù è il seguente: se Abramo è morto per sempre, il soccorso che Dio gli garantiva proclamandosi “Dio di Abramo” è stato solo una derisione, perché lo avrebbe salvato dai mali passeggeri, ma non dall’unico vero male, la morte! Abramo quindi deve rivivere. Se lui resta il loro Dio ed essi sono morti, significa che necessariamente risorgono. Perché diversamente non sarebbe il Dio dei viventi, ma dei morti. La sua fedeltà non può essere vinta dalla morte. “Perché tutti vivono grazie a lui” (v. 38): il Dio vivo non può cessare di dar la vita, quindi Abramo e i patriarchi continuano a goderne. E non loro soltanto, ma anche quelli che ne saranno giudicati degni.

Come un capovolgimento prodigioso del problema della risurrezione così come se lo pongono gli uomini, Gesù dimostra che negare la risurrezione dei morti, significa negare Dio stesso. La fede nella risurrezione dei morti è la fede in Dio stesso. Il Dio che salva Abramo e i padri deve salvarli anche dalla morte o, in caso contrario, diventa un Dio morto. Dunque, noi non crediamo in una vita dopo la morte perché l’invenzione di un al di là rassicurante ci dà il coraggio di sopportare un’esistenza che termina con la morte. Crediamo nella risurrezione perché siamo certi di essere amati dal Dio vivo e perché, indegnamente lo amiamo. La fede nella risurrezione non è un “oppio” rassicurante, ma la certezza e il riconoscimento di esserci incontrati con il Dio vivo e di aver visto la sua forza di vita, il suo Spirito, attivamente presente nel Figlio Gesù suo Gesù Cristo, primogenito dei morti.

Bibliografia consultata: Charpentier, 1971; Fausti, 2011.

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