Politica

Il discorso di Mattarella: l’Italia dal calduccio del Quirinale

C’è qualcosa di molto peggio, che seminare l’allarme: è fare finta che i motivi di allarme non ci siano.

Il giudizio sul discorso di fine anno di Sergio Mattarella potrebbe esaurirsi qui. Come al solito il presidente della Repubblica (o meglio: il presidente di questa repubblica, che non va affatto considerata, e avallata, come l’unica Repubblica Italiana possibile) ha omesso del tutto qualsiasi considerazione sull’asservimento della popolazione agli interessi di potentati economici sia interni, sia sovrannazionali. Il sottinteso, quindi, è che quei potentati non esistono.

Ovvio: Mattarella è una specie di alto funzionario di un establishment che non ha la benché minima intenzione di mettersi in discussione, o di consentire che altri lo costringano a farlo. La sua funzione è acquietare i danneggiati e riconfermare gli illusi nelle loro illusioni, raccontando con aria accorata che l’unico Grande Problema è di natura psicologica. E che la sola possibilità di un miglioramento delle condizioni attuali è avere fiducia nelle Istituzioni esistenti, sia nel nostro Paese sia in Europa.

La sua versione della realtà è che la strada è ormai segnata e irreversibile, per cui l’unica cosa che si può fare è percorrerla nel modo più mansueto e collaborativo.

Già nella parte iniziale – che non a caso verrà poi richiamata in quella conclusiva, così da chiudere il cerchio (il cerchio, o il recinto) – c’è un esplicito richiamo a questa idea del sentirsi un tutt’uno e di procedere compatti e di buon grado sulle direttrici già tracciate.

“Quel che ho ascoltato [da parte di tanti nostri concittadini] esprime, soprattutto, l’esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita. La vicinanza e l’affetto che avverto sovente, li interpreto come il bisogno di unità, raffigurata da chi rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino. (…) Sentirsi “comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme”.

È molto interessante, questa espressione: “costruire insieme”. È molto insinuante. È astutamente capziosa.

Il succo del discorso di Mattarella

È una frase da architetto che si rivolge alle maestranze: “Su, forza, dateci dentro e completate il lavoro. Continuate a seguire le istruzioni. Le direttive. Gli ordini. E collaborate – mi raccomando – con gli altri addetti in arrivo da ogni dove: gli stranieri, gli immigrati, i nuovi italiani. I nuovi dipendenti.”

Ma il punto, oggi, non è “costruire insieme”. È progettare. Anzi: riprogettare.

Quello che Mattarella definisce il “destino comune” è una trappola. È la santificazione anticipata, e permanente, del modello odierno. Che è funzionale agli interessi oligarchici di chi mira a sfruttare la popolazione nel suo insieme.

È la celebrazione dell’oggi come qualcosa di ineluttabile. Che va assecondato. Coltivato. Persino amato.

Ed ecco quindi il peana alla UE: “Quest’anno saremo chiamati a rinnovare il Parlamento europeo, la istituzione che rappresenta nell’Unione i popoli europei, a quarant’anni dalla sua prima elezione diretta. È uno dei più grandi esercizi democratici al mondo: più di 400 milioni di cittadini europei si recheranno alle urne. Mi auguro che la campagna elettorale si svolga con serenità e sia l’occasione di un serio confronto sul futuro dell’Europa”.

Ed ecco quindi l’omaggio, o la strizzata d’occhio, al caposaldo “religioso” della medesima prospettiva: spietatamente liberista nelle decisioni fondamentali,  astrattamente solidale negli auspici di contorno.

“Rivolgo un augurio, caloroso, a Papa Francesco; e lo ringrazio, ancora una volta, per il suo magistero volto costantemente a promuovere la pace, la coesione sociale, il dialogo, l’impegno per il bene comune”.

Peccato (e non in senso cristiano) che questo fantomatico “bene comune” non possa essere simultaneamente quello dei banchieri e quello dei popoli. Quello delle conventicole alla Juncker e quello della generalità dei cittadini. Quello di chi rabbonisce stando seduto al calduccio del Quirinale e quello di chi vive al freddo, o addirittura al gelo, delle pressanti incertezze sul proprio presente e sul proprio futuro.

Federico Zamboni

Giornalista professionista e molto altro, tra stampa, radio e incontri pubblici. Terreno di caccia preferito: la società occidentale che fa finta di essere libera, democratica, benintenzionata. Nel 2019 ha pubblicato “Loro sono furbi… ma noi possiamo essere intelligenti” (Guida alle tecniche di manipolazione).

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