Religione

Il discorso escatologico di Gesù: vigilanti per il futuro

Il senso della storia

La penultima domenica dell’anno liturgico appena terminato (XXXIII) e la prima del nuovo che oggi iniziamo (I di Avvento) hanno il medesimo tema sulle realtà ultime e sul senso della storia attingendo i brani biblici dal cosiddetto “discorso escatologico” di Gesù. Ai suoi discepoli che lo invitano ad ammirare il tempio di Gerusalemme come emblema di bellezza e di eterna durata (Mt. 24, 37-44) Gesù reagisce preannunciandone la fine. Sedutosi sul monte degli Ulivi, di fronte al Tempio, incalzato dalla curiosità per il “quando” avverrà la distruzione del santuario, Gesù coglie l’occasione per una grande istruzione sul futuro.

I giorni di Noè

Gesù parla di sé come del Figlio dell’uomo che viene (v. 37.44), espressione che sta a indicare la sua natura umana e che egli stesso utilizza per il suo ritorno alla fine della storia umana e cosmica. L’evangelista Matteo (il suo vangelo ci accompagnerà in questo anno A) aveva decritto in precedenza la venuta del Cristo come anticipata da catastrofi immani e sofferenze inaudite. Nel  brano odierno si parla della venuta del Figlio dell’uomo, in data incerta, e in un contesto di apparente tranquillità nell’ordinario scorrere della vita.

Si fotografa il ritmo delle azioni consuetudinarie del mangiare, del bere e dello sposarsi (v. 38): sono le azioni della vita che continua, l’istantanea di una normalità moralmente ineccepibile. Per far capire come verrà il Figlio dell’uomo, Gesù fa il paragone con i “giorni di Noè” (v. 37), quando le malvagità compiute dagli uomini prima del diluvio furono distrutte dal diluvio che venne all’improvviso.

Il giorno del Signore

Così, il giorno del Signore giunge in modo inaspettato, mentre la gente non comprende che “il mondo sta scricchiolando”: la gente “non sa”, cioè non si accorge di cosa stia succedendo, e non ne comprende la gravità. E’ la funesta incoscienza di una vita superficiale. Il dramma di lasciarsi sequestrare dalle preoccupazioni feriali che obnubilano la mente e fanno sì che non si entri nell’arca.

Non a caso Gesù, nel suo discorso sulla “montagna”, aveva insistito sull’importanza del “non affannarsi”, neanche per il mangiare, il bere, per il corpo e il vestito. Tutte cose che meritano attenzione e cura, ma non l’ansia divoratrice che toglie il sonno per rincorrere delle cose che, invece di migliorare la vita, diventano il senso della vita, fossero anche cibi e vestiti. L’esempio evangelico più calzante è quello del “ricco epulone e Lazzaro”, in cui cibo e vestiti, il ventre e l’apparire, sono le ragioni di vita.

Se nel discorso della montagna Gesù istruiva il credente a non lasciarsi annebbiare dalle preoccupazioni della vita, ora la sua catechesi specifica il senso dell’insegnamento. La vita, la storia di tutti e di ciascuno vanno verso l’incontro con il Figlio dell’uomo: questo è un dato certo a data incerta! Gesù non condanna tanto l’immoralità, come indica invece il racconto del diluvio, ma la superficialità spirituale.

Non denuncia persone scellerate, ma persone rispettabili che hanno dimenticato Dio. Ciò rende il brano molto vicino agli ascoltatori: i discepoli di Gesù, la comunità dell’evangelista Matteo fino a noi che leggiamo il suo vangelo. Sono parole per la comunità, per la chiesa di oggi. Mentre palesano un rischio grave, offrono un soccorso di salvezza. E’ un avvertimento per i distratti a non dimenticare la venuta del Figlio dell’uomo che porta con sé un giudizio. Il dramma è l’impreparazione, una vita che non guarda in avanti al giudizio, ma si limita a mangiare, bere e prendere moglie o marito, con il rischio di annegare nella banalità distratta.

Gesù esplicita il suo pensiero attraverso l’immagine di due uomini nei campi a fare lo stesso lavoro e di due donne che macinano alla mola: uno (a) viene preso e l’altro (a) lasciato (vv. 40-41). Cosa vuol dire? Non c’è differenza nel lavoro, ma nella diversità di atteggiamento: essere pronti o non esserlo. Non ci viene detto questo per spaventarci, ma per scuoterci e farci trovare pronti. Anche queste parole sono “buona notizia” di un Dio che avvisa del suo ritorno e vuole trovarci in attesa.

Vigilate

Il brano evangelico di questa domenica prima di Avvento è avvertimento, ma è anche annuncio. Il Signore viene ed è possibile per noi farci trovare pronti. Ciò che chiede colui che torna è di “vigilare”. L’invito di Gesù ai discepoli di vigilare è una risposta più grande della domanda di sapere “quando” egli tornerà. Supera la domanda perché non offre un punto, ma un orizzonte. Non soddisfa una curiosità, ma educa ad attivare uno stile di vita.

“Vigilare” è portare attenzione e impegno al presente come fosse già il momento dell’incontro. E’ creare una condotta di vigilanza, uno stato di attenzione permanente, una spiritualità dell’attesa. Vigilare è vivere “pronti” (v. 44), attenti agli avvenimenti e agli avvertimenti di Dio. L’arrivo dello sposo (Mt. 25, 1-13) è “il fine della vita”, l’incontro per la gioia e per la festa, non per la paura, ma può diventare un incubo per chi non ha vegliato.

Vegliare è la tenace e perseverante tensione dell’attesa, anticipare con la propria operosità e fede le luci che arriveranno: vegliare è vedere oltre le tenebre, proteggere chi dorme e destarlo al momento opportuno. Di conseguenza né disarmo e sconforto, né stolta spensieratezza, ma speranza e attesa. Di fronte a capovolgimenti e incertezze c’è un punto fermo: la venuta del Signore, il Figlio dell’uomo, la buona notizia che dà significato al tempo che viviamo e al tempo che verrà.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Violi, 2022.

Redazione

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