I discepoli si trovano in un luogo a porte chiuse: questo particolare delle porte chiuse del luogo dove si riuniscono i discepoli è indicato per descrivere una comunità impaurita, ancora sotto shock dopo l’esperienza tremenda della morte di Gesù. I discepoli temono che ciò che è successo a Gesù possa ripetersi nei loro confronti. Seguendo un messia deviante ed eretico, essi erano diventati pericolosi tanto quanto il loro capo, e quindi potevano essere soggetti a persecuzione. Le porte chiuse alludono dunque al clima di questa comunità non ancora capace di vivere una testimonianza pubblica.
“Venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: Pace a voi!” (v. 19). Il significato biblico di “pace” non è semplicemente quella di un benessere interiore e psicologico o di un’assenza di conflittualità nelle relazioni interpersonali. Essa è la pienezza della vita, che si suffraga non con l’appagamento consumistico dei beni, ma con relazioni vere, profonde e autentiche. La pace come dono pasquale è così importante per l’esistenza dei discepoli che Gesù ripeterà per due volte questo augurio. La Pasqua viene a confermare la possibilità di questa pienezza esistenziale, perché questo evento annuncia fondamentalmente che la dinamica della vita è più forte di quella della morte.
La reazione dei discepoli dopo il riconoscimento del Risorto è per forza la gioia, la reazione più normale di fronte a un evento del genere che spalanca a una serie di novità inaudite. La vita non è più succube della forza irriducibile della morte. Le parole del Risorto si estrinsecano in un mandato per i discepoli sul modello dell’invio del Figlio da parte del Padre. L’evento pasquale è così dirompente che il suo annuncio non può più essere nascosto a nessuno.
La descrizione si muove analogamente al racconto della Genesi nella creazione dell’uomo e della donna e, come Dio “soffiò” su Adamo, così Gesù soffia sui suoi discepoli lo Spirito: “Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo” (v. 22). Ora è lo Spirito che assume un grande valore, soprattutto in rapporto all’interpretazione della storia, della vita e della verità. La missione dei discepoli sarà così suffragata dall’azione dello Spirito, con la funzione di interpretare l’esistenza. Senza questa capacità interpretativa la comunità cristiana non ha significato.
“A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (v. 23). La comunità cristiana, così, nella sua missione si fa portatrice dell’annuncio del perdono per tutti i fallimenti esistenziali degli esseri umani. Sono questi che ingrigiscono la vita, regredendola in un inverno di inedia e di chiusura, lontana dalla stagione della pace e della gioia promessa dalla fede.
Nella seconda scena compare Tommaso, il discepolo che non era presente al momento della visita di Gesù e che non si fida degli altri, quando gli dicono di aver visto il Signore. Per credere egli vuole constatare il Signore in carne e ossa, il segno dei chiodi nelle sue mani, toccare le sue ferite e il costato.
Se è vero che l’evangelista costruisce i suoi personaggi come tipi di cristianesimo, Tommaso rappresenta coloro che per aderire alla fede devono avere prove evidenti, tangibili. La fede nella risurrezione non può essere il risultato di questo tipo di percorso. Nell’ultima scena, otto giorni dopo, quando Gesù si presenta di nuovo al gruppo dei discepoli, Tommaso è lì. Gesù si rivolge senza esitazione proprio a lui, invitandolo a toccare e a osservare il suo corpo, segnato da ferite e piaghe, esortandolo a credere. Tommaso crederà, ma perché ha avuto la fortuna di essere tra i discepoli storici di Gesù. Gesù redarguisce il discepolo “incredulo” e annuncia l’ultima beatitudine di questo vangelo: è per coloro che, senza bisogno di verifiche, giungono lo stesso alla fede pasquale.
Abbiamo tutti, come Tommaso, il bisogno di vedere e di toccare. Vogliamo fare esperienza diretta della realtà. Gesù offre a Tommaso questa possibilità. Il vangelo non dice se Tommaso in effetti abbia toccato i segni della passione per sincerarsi, per essere sicuro che il Risorto fosse proprio colui che era stato inchiodato alla croce. Il vangelo riferisce, invece, la sua professione di fede, la più semplice e la più diretta che si possa immaginare: “Mio Signore e mio Dio!” (v. 28).
Tommaso, probabilmente, non ha più bisogno di toccare: gli è bastato incontrare personalmente Gesù. Anche a noi questo può accadere, ma senza vedere e senza toccare. Perché il Risorto non ha più il corpo di prima e dunque la sua non è una presenza fisica, che si impone. Ci vuole la fede per accorgersi di lui, per cogliere la sua presenza, per incontrarlo. In caso contrario gli passiamo accanto distratti, presi da altre cose e non riusciamo neppure a vederne le tracce. Noi possiamo essere “beati”, felici e fortunati perché abbiamo occhi buoni, gli occhi della fede, per riconoscere il Cristo che ci visita nel tessuto della vita quotidiana e ci rende liberi di accogliere il dono di Dio così come si presenta.
Fa seguito la prima conclusione del quarto vangelo, che contiene la dichiarazione di intenti per cui esso è stato scritto. I segni compiuti da Gesù e trascritti in quest’opera non sono tutti, ma sono quelli che suscitano la fede in lui. Non è questo, tuttavia, lo scopo ultimo dell’opera, ma solo quello intermedio: il fine è avere la vita. Il vangelo, quindi, non è stato scritto per rendere i credenti pii, ma perché abbiano la vita piena, grintosa e dinamica che deriva da Dio.
Il capocordata.
Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Laurita, 2021.
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