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Il giudizio finale

Questa pagina del Vangelo (Mt. 25, 31-46), che ascolteremo nella Festa di Cristo Re e Signore dell’Universo a chiusura dell’anno liturgico 2013/2014, si presta a interpretazioni divergenti. Per alcuni è il testo evangelico più “universale”, il meno “istituzionale”, perché l’accesso al Paradiso esige semplicemente la pratica dell’amore concreto verso il fratello e la sorella poveri. Anche per il cristiano la sua garanzia speciale per il Regno di Dio è l’atteggiamento di amore verso gli altri che sono nel bisogno. Per altri, i poveri sono i missionari cristiani perseguitati. Chi sono dunque “i miei fratelli più piccoli”? Si tratta veramente della parabola del giudizio finale? Nonostante l’immagine del pastore che separa le pecore dai capri, il brano descrive il giudizio finale: il Figlio dell’uomo (Gesù) nella sua gloria, da una parte i benedetti (i buoni) e dall’altra i maledetti (i cattivi), la vita per gli uni e il castigo per gli altri.

Il momento in cui avverrà questo giudizio resta imprecisato: “Quando il Figlio dell’uomo verrà”; anche l’ambiente dove si svolge il giudizio è impreciso; il giudice finale è il Figlio dell’uomo che poi diventa re. Infatti, Egli è identificato con i poveri perché ha vissuto tutta la debolezza della condizione umana: fame, nudità, malattia ecc. Gesù è vissuto come un povero e con i poveri, pur rivendicando poteri divini. Egli giudicherà tutte le genti, cioè l’insieme degli uomini compreso Israele e la Chiesa. Il testo di Matteo sembra riferirsi al giudizio universale che riguarda tutti gli uomini, sia credenti che pagani. Il giudizio è separazione: essa è illustrata con la separazione che il pastore intraprende alla sera nel suo gregge, tra le capre e le pecore.

La separazione tra “buoni” e “cattivi” ha come criterio ciò che essi hanno fatto o omesso di fare. I “benedetti” ricevono il regno perché hanno praticato la misericordia. Vengono elencate sei opere di misericordia. Anche in altre religioni si insiste su queste opere di misericordia, ma la peculiarità cristiana consiste nel fatto che il re-giudice afferma che la misericordia è stata praticata nei suoi confronti: “lo avete fatto a me” (v. 40).

Tutto si compie sul piano dell’agire, della condotta esteriore, e non di un atteggiamento puramente interiore. Queste azioni riguardano il servizio concreto del prossimo, senza riferimento ad un servizio “cultuale” e neppure ad una conoscenza di Dio o di Cristo. Sono opere fondamentali di misericordia verso i meno favoriti, e appartengono al fondo comune della morale umana. Questi atti concreti di amore verso gli altri illustrano la regola d’oro della carità verso Dio e il prossimo. Anche Matteo insiste su questo aspetto pratico della “giustizia”, alla fine del discorso di Gesù sulla montagna: la giustizia non consiste nel “dire” ma nel “fare”.

I fratelli più piccoli di Gesù sono i poveri in generale o i cristiani perseguitati? Il termine “piccolo” indica sempre un cristiano e un discepolo. Anche il termine “fratello” designa sempre il discepolo. Pare dunque chiaro che l’espressione “i miei fratelli più piccoli” si riferisca ai discepoli missionari. Questi “fratelli” sono affamati, assetati, forestieri, nudi, ammalati, carcerati: dunque, si tratta dei discepoli perseguitati, imprigionati, scacciati di città in città, umiliati, flagellati, messi in croce e uccisi. In conclusione, i fratelli più piccoli di Gesù verosimilmente sono i discepoli perseguitati, dei predicatori del Vangelo.

La prospettiva di Matteo

Gesù si rivela come il giudice finale che esercita lo stesso potere di Dio e si identifica con i suoi fratelli missionari perseguitati. Si tratta di un avvertimento solenne al mondo intero: la nostra sorte finale dipende dall’accoglienza che avrete riservato ai missionari della Buona novella. La salvezza non sta in una adesione teorica al regno, ma nell’accoglienza concreta del fratello che annuncia il Vangelo e vive nella povertà come il suo maestro. E’ anche un avvertimento alle comunità cristiane. Dopo i primi anni di fervore, pare che verso gli anni 70 la comunità cristiana, segnata dalle persecuzioni dei Giudei e del mondo pagano, abbia conosciuto un certo intorpidimento: languidezza nella fede e numerose divisioni all’interno della chiesa. Anche i cristiani verranno giudicati sull’accoglienza riservata ai missionari perseguitati e disprezzati. Il brano di Matteo contiene anche un incoraggiamento dato agli annunciatori del Vangelo con un richiamo alla loro dignità. Nella loro povertà essi sono identificati con il Figlio dell’uomo; il loro spogliamento stesso è il segno della presenza in essi del Figlio dell’uomo: giudicati e disprezzati dal mondo, ne sono di fatto i giudici.

La prospettiva di Gesù

Tale visione di Matteo riflette esattamente il pensiero di Gesù? Alcuni commentatori propongono la ricostruzione seguente del brano in questione. In origine c’era una breve parabola: il regno dei cieli è simile ad un gregge che un pastore riunisce, separando le pecore dai capri e ponendo le une alla sua destra e gli altri alla sinistra: il pastore era Dio. Intorno a questa parabola sono state raggruppate delle parabole pronunciate da Gesù in circostanze diverse per descrivere gli atteggiamenti concreti d’amore secondo i quali verranno giudicati gli uomini: Gesù si identificherà con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Chi non vive questo amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, non vive secondo la fede del Regno e si esclude dalla sua logica; rinnega il Figlio dell’uomo perché i poveri sono i suoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà. Le “genti”, vengono giudicate in base al loro atteggiamento verso i fratelli poveri, perché questi ultimi sono, per gli uomini, il luogo privilegiato della presenza di Dio e di Gesù Cristo. Se questa ricostruzione è esatta, possiamo capire meglio il lavoro redazionale di Matteo: l’arte di Matteo consisterebbe nel fare della parabola per descrivere l’ultimo giudizio, e nell’introdurre nel testo le motivazioni della sentenza, parole pronunciate in realtà da Gesù in altre circostanze (per es. le Beatitudini). Matteo ha dato coerenza a parole disperse di Gesù, applicandole alla situazione concreta della sua chiesa.

Dunque, l’essenziale della vita cristiana non è confessare Cristo solo a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli non favoriti dalla vita. In ciò consiste il vivere Cristo, forse anche senza conoscerlo! Inoltre, accogliere o rifiutare i messaggeri del Vangelo impegna il nostro particolare destino, perché si accoglie o si rifiuta Cristo.

Bibliografia consultata: Duprez, 1973; Gnilka, 1990.

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