Rimpasto? “Io a questa parola rabbrividisco, è una parola da vecchia politica. I partiti hanno detto che non sono interessati e questo fa loro onore”. E, come se non bastasse: “Il termine ‘rimpasto’ è una formula che andrebbe esiliata dal lessico della nuova politica.
Rimescolamento delle posizioni di governo? I cittadini non capirebbero”. Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non fa sconti. Lo precisa nella conferenza stampa di giovedì scorso 3 dicembre, lo ribadisce nella lunga intervista a la Repubblica di sabato 5: la parola ‘rimpasto’ non fa parte di questo governo. Il motivo? Perché verrebbe percepito “in primis dal punto di vista linguistico, come un ritorno al passato, alle costumanze e ai riti della deprecata Prima Repubblica“, lo scriveva sette anni fa il politologo Alessandro Campi, quando il governo guidato da Enrico Letta galleggiava e avrebbe poi lasciato il passo, non senza polemiche e divisioni, a Matteo Renzi.
Rimpasto sembra una mela avvelenata, tutti la scansano ma l’attrazione fatale che esercita sembra sempre a un passo dal travolgere tutto e tutti. Se il COVID-19 ha trasformato il nostro linguaggio (lockdown, coronavirus, smart working e via discorrendo) e anche molte nostre abitudini (distanziamento sociale, smart working, videoconferenze), la politica italiana sembra conservare, nonostante tutto, certe formule.
D’altronde, ogni epoca ha avuto il suo ‘rimpasto’ e ciò che è venuto dopo ha spesso mantenuto nel vocabolario quella parolina. Persino in epoca fascista, il rimpasto, meglio noto come “rotazioni”, “cambio della guardia” o “colpo di ramazza”, serviva a Benito Mussolini a sostituire figure controverse o più idonee a garantire la compattezza del gabinetto.
In tempi di Prima Repubblica, i conflitti interni alla maggioranza hanno dato adito più frequentemente a crisi dell’esecutivo che a rimpasti ministeriali. I costituzionalisti ricordano il rimpasto del governo Andreotti VI (marzo 1991) che il presidente Cossiga negò costringendo Andreotti ad aprire una crisi di governo.
A fare largo uso dell’istituto del rimpasto di governo è stato Berlusconi. Come nel maggio del 2011 quando ben nove nuovi sottosegretari entrarono a far parte del governo Berlusconi IV per ‘premiare’ chi aveva sostenuto l’esecutivo in occasione di un voto di sfiducia alla Camera. Anche Renzi non lo disdegnò: nel gennaio del 2016 ridisegnò l’esecutivo con ben 12 nuovi incarichi per riequilibrare i rapporti tra il Nuovo centro destra, Pd e Scelta Civica.
Con l’avvento dei Cinque Stelle e della Terza Repubblica, rimpasto e altre vecchie parole del linguaggio politico sembravano sepolte: al bando dunque ribaltone, inciucio, larghe intese, agibilità politica. E anche rimpasto, come ha invocato il presidente Conte.
Sarà così? Intanto, l’esecutivo dovrà superare la prova del Mes il 9 dicembre al Senato ed evitare una crisi di governo che potrebbe portare al voto anticipato. Lo ha fatto trapelare il Quirinale, se il passaggio parlamentare su un tema di politica europea non dovesse essere superato, le urne sarebbero inevitabili. E il ‘rimpasto’ resterebbe, almeno per il momento, una “formula esiliata dal lessico della nuova politica”.
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