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Il primo annuncio della Passione

Il Vangelo di questa domenica, XII del Tempo Ordinario, ci descrive un periodo importante della vita di Gesù, come la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione di Cristo e “le parole” che sottolineano le condizioni richieste per seguirlo (Lc. 9, 18-24). Lo stesso brano lo ritroviamo sia in Marco che in Matteo: tuttavia, se vogliamo cogliere la portata e l’orientamento specifico del racconto di Luca, è indispensabile confrontarlo con quello di Marco che ne è la fonte. Nel vangelo di Marco, la confessione di Pietro occupa un posto centrale, tanto da meritare di essere definita il “cardine” di tutto il suo vangelo. D’ora in poi il campo d’azione del ministero pubblico di Gesù sarà Gerusalemme e Gesù “apertamente” inizia a parlare della sua Passione. Anche per il vangelo di Luca la via del Signore verso Gerusalemme si presenta come una salita verso la Passione.

Luca introduce l’episodio della confessione di Pietro con la descrizione di Gesù che prega in disparte (v. 18): l’evangelista vuol fare risaltare in questo modo che tutti gli avvenimenti importanti della vita di Gesù hanno luogo in un’atmosfera di preghiera. La preghiera è il luogo solitario e intimo dell’amore di Gesù verso il Padre, quell’amore del quale è venuto a renderci partecipi. E’ il luogo dove incontra tutti i fratelli appunto perché presso il Padre.
Finora era l’uomo che si interrogava su Gesù e lo interrogava. Ora è lui stesso che prende l’iniziativa. Gesù chiede ai discepoli: “Le folle, chi dicono che io sia?” (v. 18). Seguendo Marco, l’evangelista Luca riferisce che le folle identificano Gesù o con il Battista o con Elia o con uno dei profeti antichi. L’errore della gente consiste nell’identificare Gesù con una figura del passato. L’aspetto positivo è che questo passato contiene la promessa di Dio e la sua parola di risurrezione: “uno degli antichi profeti che è risorto” (v. 19). Dicendo che Gesù è un profeta risorto, la folla ci introduce al centro della rivelazione di Gesù, profeta morto e risorto.

“Ma voi, chi dite che io sia?” (v. 20). Importante è notare che ora non è la gente ad interrogarsi su Gesù, ma è Gesù stesso che interroga i discepoli. Il discepolo è colui che non mette in questione Gesù, ma accetta di essere messo in questione da lui. Gesù domanda e il discepolo risponde. Fino a quando siamo noi a porre le nostre domande, non avremo mai risposte circa la sua novità: risponderemo secondo la nostra ovvietà. Deve tacere la nostra domanda per ascoltare la sua.
“Il Cristo di Dio” (v. 20). Pietro risponde esprimendo la fede della Chiesa. La sua risposta riconosce in Gesù il Cristo il messia atteso, colui che deve venire secondo la promessa di Dio. Ma Dio compie le sue promesse, non i nostri desideri. Per questo Gesù, come “il Cristo di Dio”, deluderà le attese messianiche dell’uomo. La risposta di Pietro è vera, anche se lui la intende in modo opposto a quello vero, perché Gesù è il Messia crocifisso. Luca concepisce la messianicità di Gesù in stretta connessione con la sua filiazione divina: questa è in un certo modo il fondamento di quella.

“Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno” (v. 21). Più di qualche autore traduce l’ordine di Gesù con il verbo “sgridare”: sembra strano che Gesù “sgridi” i discepoli dopo la risposta di Pietro. Sgridando i discepoli come i demoni che rivelano la sua identità, Gesù vuole correggere il messianismo terreno (politico-militare): solo così la fede si tiene aperta alla rivelazione del mistero della croce. I discepoli non possono svelare la messianicità senza la correzione che lui vi apporta con la sua morte e risurrezione: il mistero della croce come via alla vita è il “pensiero di Dio” contrapposto al “pensiero dell’uomo”. I discepoli lo capiranno lentamente, e solo dopo la Pasqua! Solo il Signore risorto riuscirà a far capire ai discepoli la necessità della Passione del Messia. Solo dopo che il Signore risorto ebbe spiegato loro, partendo dalla scritture, che tutto questo “doveva” succedere, l’intelligenza di questo mistero cominciò ad infiammare il loro cuore con la sua luce.

“Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto” (v. 22). Egli è il “Cristo di Dio” proprio perché non salva se stesso, ma perde e dona se stesso per noi. Gesù non è il Cristo scontato dell’attesa umana, ma il maestoso ed enigmatico “Figlio dell’Uomo” che affronta il cammino del Servo del Signore. Il compimento della volontà di Dio (“deve”) non è un arbitrio capriccioso: Gesù deve morire in croce per noi, perché ci ama e noi siamo sulla croce. La croce è il nostro male che lui si addossa perché ci vuole bene: è il suo perdersi per salvarci.
“Chi perderà la propria vita per causa mia la salverà” (v. 24). Questi “detti” di Gesù che enunciano le condizioni per seguirlo vogliono reagire contro la fobia della sofferenza, che è naturale in ogni uomo, ma soprattutto nel discepolo che viene perseguitato a causa della sua fede in Gesù Cristo. Il discepolo che vuol seguire il Cristo gli deve rassomigliare, perché Gesù ha assunto volontariamente la sofferenza voluta da Dio. Nella misura in cui il cristiano rischia di perdere la propria vita confessando Gesù Cristo di fronte ai suoi persecutori, la salverà nel giorno in cui il Figlio dell’Uomo verrà per il giudizio.

Rinnegare se stesso e seguire lui non è qualcosa di facoltativo: è “salvare o perdere la vita”. L’uomo mosso dalla paura della morte e guidato dall’ansia della vita, fa di tutto per salvarsi. La salvezza è la fede nella parola di lui che mi salva, come la perdizione è la diffidenza causata in me dalla menzogna. L’uomo si realizza amando, cioè perdendosi e diventa ciò che ama e per cui si perde. Ma per amare, bisogna essere amati. Il cristiano può amare Gesù e perdersi per lui, perché Gesù per primo lo ha amato e ha dato se stesso per lui. Mi affido a lui, nella vita e nella morte, perché lui è morto ed è risorto per me, vincendo tutte le barriere del mio male e della mia paura. Volersi salvare è perdersi, perdersi per Cristo è salvarsi per il presente e per il futuro.

Bibliografia consultata: Denaux, 1970; Fausti, 2011.

Redazione

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