Quando si parla di Cabernet si pensa subito alla zona di Bordeaux, capoluogo del dipartimento della Gironde, situata al centro della famosa regione vinicola e città portuale posta sulle rive del fiume Garonne, nel sud-ovest della Francia, nome derivante dall’antica città romana di Burdigala.
Un’uva francese divenuta nel tempo un grandissimo vitigno internazionale impiantato in tutto il mondo le cui origini sembrano far provenire quest’uva dall’antico Epiro, una zona montuosa compresa tra l’Albania e la Grecia e successivamente portata, attraverso il porto di Durazzo a Roma e da cui prima in Spagna e successivamente in Francia nella zona di Bordeaux.
Un vitigno che parla francese da più di tre secoli anche grazie ad una antica facoltà di enologia che di fatto ha creato le tecniche di produzione del vino successivamente diffuse in tutti i continenti.
Ma quando si parla di Cabernet bisogna saper identificare anche le due diverse varietà il Franc ed il Sauvignon, la prima distinguibile già dal nome, “franco”, “sincero”, a dimostrazione della schiettezza dei suoi profumi, subito riconoscibili, mentre la seconda nasce da un incrocio spontaneo tra i vitigni Cabernet Franc e Sauvignon Blanc.
Profumi vegetali di peperone, speziati di pepe nero e fruttati di ribes per i Cabernet Franc, e profumi di frutti rossi, lamponi e ribes, profumi vegetali del sottobosco, con una nota tannica più importante e maggiore setosità grazie alla maggiore presenza di sostanze polifenoliche nelle bucce, per i Cabernet Sauvignon, che li rendono più adatti all’invecchiamento ed all’evoluzione.
Dopo questa breve premessa è giusto chiedersi, quando da noi in Italia è giunto il Cabernet e dove sono state impiantate le prime vigne, considerando che in Francia già secoli prima si coltivava quest’uva.
La risposta sembrerebbe semplice vista la nascita negli anni ’70 in Toscana dei Supertuscan, tra tutti il Sassicaia, vino pluripremiato nel mondo e l’affermazione pubblicitaria che è Bolgheri la capitale italiana del Cabernet Sauvignon ed il Marchese Mario Incisa della Rocchetta, grande studioso di agricoltura, il Dominus di un vino reso celebre grazie alla sua capacità ed intuizione di coltivare questo vitigno su un terreno sassoso all’interno della propria Tenuta San Guido.
Sicuramente il Marchese Mario Incisa della Rocchetta ha dato vitalità e lustro ad un vitigno internazionale in territorio italiano ma, l’origine del Cabernet in Italia lo si deve all’agronomo Pasquale Visocchi, il quale per la prima volta, agli inizi del 1800, lo impiantò nel Lazio e precisamente ad Atina, in Val di Comino in provincia di Frosinone.
Dalle felici intuizioni che un buon vino è “poesia” e per farlo ci vuole “arte” e che “Il genio del vino sta nel vigneto”, Pasquale Visocchi, agronomo, viticultore, imprenditore cartario e sindaco di Atina, in quegli anni riuscì a migliorare la produzione agricola in Val di Comino, predisponendo su alcuni terreni dei campi sperimentali, seguendo le metodologie di allevamento e adottando le tecniche di cantina apprese in Francia, dai quali ricavò una graduatoria delle specie più fertili.
Per la prima volta Italia vi fu una invasione di vitigni francesi, quali, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Pinot Noir, Syrah, Gamay, Merlot a bacca rossa e Semillon, Pinot Blanc, Sauvignon Blanc e Russane, a bacca bianca e successivamente, le sue sperimentazioni furono utilizzate presso la Scuola di Enologia di Conegliano e diffuse, poi, in Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
Da allora non si è mai più sentito parlare di Cabernet Ciociaro ma solo di cabernet toscano, veneto o altro, quasi fosse un controsenso che un vino così importante fosse stato lanciato dal Frusinate nel resto dell’Italia. Solo nel 1999 si ritorna a parlare del Cabernet di Atina il quale è riuscito ad ottenere il riconoscimento della DOC (Denominazione Origine Controllata), grazie a Giovanni Palombo, proprietario dell’omonima cantina vinicola, unitamente ad altri appassionati e lungimiranti proprietari di cantine vinicole, conseguendo così una prima identificazione a livello nazionale.
I vini facenti parte della DOC devono sottostare ad un rigido disciplinare del Ministero delle Politiche Agricole il quale stabilisce che nel Cabernet Atina DOC deve essere presente almeno l’85 % di uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc mentre l’altro 15 % può essere di uve a bacca nera coltivati nel Lazio. Il vino Atina Doc deve invece contenere almeno il 50 % di uve Cabernet Sauvignon e il resto di Merlot, Syrah e Cabernet Franc e fino ad un 20% di altre uve a bacca nera coltivati nel Lazio.
Tali uve devono essere coltivate solo nei paesi di Atina, Gallinaro, Belmonte Castello, Picinisco, Sant’Elia Fiume Rapido, Alvito, Villa Latina, San Donato Val di Comino, Vicalvi, Casalattico, Casalvieri e Settefrati.
Successivamente alla DOC, il cabernet di Atina torna a farsi nuovamente sentire attraverso la creazione del Consorzio di Tutela Atina Cabernet Doc, nato nel 2018 e formato da circa 15 cantine vinicole, dando nuovo impulso al territorio della Valle di Comino, dove ancora oggi i consorziati, raccolgono le uve su terreni scoscesi ed impervi ad una altitudine di circa 500/600 metri sul l.m., solo manualmente, adagiando i grappoli raccolti in apposite cassette evitando di schiacciare gli stessi per non far partire la fermentazione prima che si arrivi in cantina e compromettere il sapore del vino.
Fare vino in questa Valle garantendo tipicità, qualità e standard altamente elevati non è semplice. Va e deve essere tutelata l’intera filiera produttiva ed è per questo motivo, curioso come sono, ho voluto incontrare il Presidente del Consorzio, Enrico Rossi, e il Presidente Onorario dello stesso consorzio, Fabio Rossi, a cui ho rivolto alcune domande riguardanti sia i loro obiettivi, sia i vari aiuti e coinvolgimenti tecnico-amministrativi e politici a livello Provinciale e Regionale.
L’incontro è stato doveroso dopo aver notato come il Cabernet di Atina DOC, sebbene conosciuto ed apprezzato notevolmente in Francia, Belgio e Germania e in alcune zone Italiane, sia poco tenuto in considerazione a livello regionale. Si parla solo e unicamente di Cesanese, di Frascati, di Bellone, di Cannellino, di Passerina e Malvasia, dimenticandosi l’unicità e la storia formidabile di questo favoloso nettare di-vino.
Questa mancanza l’ho potuta notare anche all’ultimo Vinitaly 2023 a cui ho partecipato, osservando come il padiglione della Regione Lazio, bellissimo e accattivante esternamente non lo sia purtroppo internamente. Ogni qualvolta entro in questo padiglione subentra dentro me una sorta di tristezza dovuta ai pochi stand vinicoli interni, dotati ognuno di poco spazio, ammassati l’uno vicino all’altro, quasi anonimi se paragonati agli stand dei padiglioni che ospitano le altre regioni d’Italia.
Mancano all’interno i Consorzi e non si pubblicizza con vigore e in maniera energica le eccellenze del nostro territorio. Ogni cantina va da sé e da sola; senza un intento comune quale può essere un programma di crescita valevole sia per il Cabernet di Atina Doc, come per il Cesanese del Piglio Docg che per il Moscato di Terracina Doc e così via.
Si vede chiaramente che l’ARSIAL da sola non basta e non è sufficiente a garantire pari opportunità a tutte le cantine laziali. Non ci si può quindi dimenticare del Consorzio Cabernet di Atina Doc il quale ogni anno produce circa 500.000 bottiglie di qualità sempre più elevata ponendo attenzione anche all’aumento vertiginoso delle materie prime, quali vetro, tappi e gabbiette, adeguandosi ai mercati, compensando e calmierando il prodotto finale, assorbendo i costi nelle cantine.
Di ciò, al momento non ho ancora visto o sentito nessuna presa di posizione da parte dei vari Enti incaricati al controllo dei prezzi, con la conseguenza che all’aumento dei prezzi in cantina non corrisponde per gli stessi un adeguato utile d’esercizio.
Scambiando qualche altra parola con Enrico Rossi, il fratello Marco e il papà Fabio, ho scoperto che sono i titolari della Masseria Barone dove da anni si producono vini di altissima qualità, definendosi avanguardisti per Atina e per la Valle di Comino, portando qualità al territorio dove vivono. Basti pensare che loro non sono soliti numerare le bottiglie ma, le distinguono sul mercato ognuna con un proprio disegno diverso, dipinto a mano. Il loro motto è, “come fanno tre Rossi a non produrre rossi buoni…“
Come per tutti gli appartenenti al Consorzio, i loro vini vengono prodotti solo con uve del territorio e devono piacere prima a loro per essere vincenti, non come li vuole “il mercato”, con un occhio sempre attento alla sostenibilità. Di questo, Enrico Rossi ne va proprio fiero, sottolineando che i pianeti buoni sono difficili da trovare, ecco perché loro scelgono di tappare le bottiglie con tappi Novacork, ottenuti da materie prime sostenibili e rinnovabili derivate dalla canna da zucchero, ponendo anche la giusta attenzione all’uso di incentivi per la riconsegna dei cartoni contenenti le bottiglie di vino.
Certo è che il vino è cultura e qui, nella Valle di Comino, in questo splendido territorio lo si respira appieno ed è per questo che vi invitiamo a partecipare ai prossimi eventi organizzati dal Consorzio il 18 luglio e a fine luglio o inizio agosto 2023, dove potrete assaggiare le tipicità locali, come la minestra con pane raffermo, i fagioli cannellini bianchi, oppure i vari formaggi e i salumi, le salsicce e il favoloso pecorino e l’eccezionale marzolina, il tutto in abbinamento con i meravigliosi vini del Consorzio di tutela Atina Cabernet Doc.
Giulio Mancini (La Ferriera) con Enrico e Marco Rossi (Masseria Barone)
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