La RAI ha appena compiuto 60 anni e – come era fin troppo facile prevedere – si è scatenato il diluvio delle rievocazioni e delle prese di posizione. Niente di nuovo o di rimarchevole. Non è certo una novità, infatti, che la storia della RAI sia strettamente connessa alla storia politico-economica del nostro Paese con, forse, due soli momenti di cesura e di innovazione autenticamente aziendali: il passaggio dal bianco e nero al colore (preparato dal Direttore Generale Bernabei e realizzato, tra il 1975 ed il 1977, dai DG Principe e Glisenti) e quello dall’analogico al digitale (realizzato tra il 2009 e il 2010 durante la mia gestione da Direttore Generale).
In tanto dibattito sono tuttavia mancate riflessioni approfondite sul senso autentico del servizio pubblico radiotelevisivo, partendo dalla necessità di porsi una domanda “a monte”: l’esplosione della multicanalità e delle multipiattaforme giustifica ancora la necessità di un “servizio pubblico”? In altre parole, la domanda per programmi che possano essere definiti di servizio pubblico può comunque essere soddisfatta dall’offerta autonoma di mercato attraverso centinaia di canali televisivi e attraverso l’interattività permessa da Internet senza bisogno di una (o più) emittenti ad hoc? Ad esempio l’esistenza di canali tematici facilmente accessibili per il teatro, lo sport, la scuola, la cucina, il meteo etc.. può rendere superflua la necessità di un palinsesto specifico di un broadcaster “pubblico”?
La risposta non è facile anche perché presuppone una definizione compiuta della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo che invece è, dal punto di vista giuridico, tra le più complesse e tormentate essendo variabile di epoca in epoca, da Paese a Paese. Se un filo rosso si può trovare tra i diversi concetti e le diverse esperienze internazionali è che l’intervento dello Stato nel settore televisivo (come attore e non come mero regolatore) si giustifica con l’importanza attribuita al mezzo, alla sua influenza sui comportamenti politici e sociali nonché con l’opportunità di tutelare “le radici e le identità nazionali”.
In questo senso mi sembra che le ragioni del servizio pubblico radiotelevisivo nel nostro Paese continuino pienamente a sussistere anche se è lecito interrogarsi “de jure condendo” se lo strumento usato sinora (un solo broadcaster specializzato, finanziato in parte dal canone in parte dal mercato) sia quello più efficiente e/o più utile.
Alzando un po’ lo sguardo a livello internazionale le soluzioni adottate sono essenzialmente tre: Paesi in cui esiste una sola TV pubblica o con funzioni pubbliche (oltre l’Italia, l’Austria, la Svezia, la Finlandia, la Svizzera, il Portogallo, la Francia, il Regno Unito – seppur quest’ultimo con qualche distinguo); Paesi dove esistono più emittenti pubbliche (Belgio, Danimarca, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna, Australia, USA); un servizio pubblico focalizzato sui programmi e non sull’emittente.
E’ questo il caso della sola Nuova Zelanda ( e, in parte, di Singapore) dove pur esiste una TV di Stato ma che si finanzia in toto sul mercato con la pubblicità mentre il canone viene raccolto da strutture pubbliche che poi lo distribuiscono a chiunque faccia programmi di “sevizio pubblico”. Un modello interessante e moderno (anche perché molto più dinamico e flessibile degli altri) e che, in qualche modo, ricorda quanto attuato in Italia in tema di finanziamento pubblico delle opere cinematografiche e dell’editoria. Un sistema quest’ultimo che (al di là di alcune evitabili distorsioni tecniche e di qualche patologia) si è rivelato efficace e adeguato ai suoi obiettivi.
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