Si riprende finalmente a respirare il teatro che ha subito veramente un disastro in questi due anni di pandemia. E si riprende con una bellissima opera di Peppino De Filippo: “La lettera di mammà”. Perché proprio quest’opera?
Innanzitutto perché era importante riaprire il nostro glorioso sipario con uno spettacolo intanto divertente, farsesco; forse il capolavoro comico di Peppino De Filippo. E poi per fare un passo indietro a novant’anni fa, agli anni ’30; scene, costumi di quel periodo, dieci attori in palcoscenico. Per riaprire dopo due anni serviva un evento. Per questo motivo ho voluto mettere in scena uno spettacolo che lo fosse veramente. Il pubblico mi ha dato ragione.
Si può parlare di emozione anche per un grande professionista come lei? L’emozione di riaprire così?
Beh! Si. Una grande, una grandissima emozione. Anche perché questo teatro, che è stato aperto nel 1998, da allora non ha mai mancato una stagione. Abbiamo lavorato anche in estiva. Avremo fatto settanta, ottanta spettacoli su questo palcoscenico: una autentica catena di montaggio. Per cui vederlo chiuso per due anni è stata molto, molto dura: per il teatro, per l’impresa, per tutti i lavoratori che comunque ne fanno parte perché ogni luogo di lavoro ha i suoi dipendenti. Oltre agli artisti ci sono i macchinisti, i tecnici, le sarte, tutti coloro che contribuiscono alla realizzazione di qualsiasi spettacolo.
E poi, diciamo la verità: non si può vivere senza teatro. Cosa rappresenta il teatro per l’uomo, per lo spettatore?
Penso che il teatro sia la vita stessa. E’ l’unica forma di spettacolo insieme al circo che ha la magia di materializzarsi sulle tavole del palcoscenico ogni sera solo per quella sera; ogni spettacolo non è mai uguale a quello della sera precedente, è sempre diverso perché sono proprio le emozioni ad essere diverse.
Abbiamo parlato di tanti anni di attività teatrale. Però nelle sue opere c’è un filo conduttore. Non sono mai opere fini a se stesse. C’è sempre un messaggio che vuole trasmettere al pubblico: un messaggio che riguarda la società, l’umanità in genere. Di che si tratta?
Intanto la scelta di questa farsa di Peppino De Filippo e il suo significato. L’insegnamento importante che vorrei che giungesse al pubblico è quello di riconsiderare per un attimo quei valori umani che hanno fatto parte del nostro patrimonio culturale e che in questi ultimi decenni si sono frettolosamente smarriti. Attraverso questa storia c’è la possibilità di immergersi nel nostro recente passato per riscoprire sentimenti, principi morali, comportamenti che forse oggi possono apparire desueti, e invece ricordarli fa bene al cuore, all’anima e anche, soprattutto, alla mente.
In pratica in tutte le sue opere da lei allestite, sue ma anche di altri autori, ci sono due chiavi di lettura: quella semplicemente comica che porta alla risata facile e un’altra piu’ profonda sulle miserie e i vizi dell’umanita’. Il pubblico coglie questi aspetti? Si interroga?
In ogni mio scritto per il teatro cerco sempre di fare un’analisi piuttosto spietata della società proprio per indurre lo spettatore a riflettere vedendosela spiattellata in faccia. Questo deve fare del resto un autore: denunciare platealmente quello che vede e cercare di metterlo in evidenza perché lo spettatore faccia una giusta riflessione e magari possa cambiare certi comportamenti perché la strada che abbiamo intrapreso, e mi riferisco soprattutto alla cultura del nostro paese, è una strada chiusa. Bisogna tornare un po’ indietro nel tempo e riappropriarci della cultura autentica. Noi italiani siamo stati nel mondo un esempio, però in questi ultimi trent’anni l’abbiamo messa da parte. E questo per il nostro popolo è deleterio.
Far ridere fa riflettere di più, fa arrivare meglio il messaggio, anziché dichiararlo in maniera diretta, esplicitamente?
Si. Il problema è uno solo. Quando un attore denuncia qualsiasi cosa in palcoscenico, se lo dice in una maniera drammatica, lo spettatore capisce subito qual è il registro, qual è la riflessione che deve fare. Quando fa la stessa riflessione dopo una battuta dal sapore ironico, comico che sia, e dentro c’è comunque lo stesso significato drammatico, quando arriva a colpire, per lui è dura, eh!
Secondo me resta di più perché non è la lezioncina, ma diventa una coltellata che arriva dentro.
Assolutamente si, perché tu ridi all’inizio ma poi dici: Oddio! E questo poi si sente e rimane. E poi…tutto il mio teatro l’ho fatto attraverso l’umorismo, il tragicomico, come voleva Molière che diceva che la maschera de ‘L’avaro’ è comica per chi la guarda ma è tragica per chi la porta.
Vogliamo ricordare qualche titolo delle sue opere?
Ho scritto parecchie commedie in due atti, tantissimi atti unici, inoltre ‘Un figlio per mia moglie’ da cui ho tratto la sceneggiatura per il film (ndr ‘Un figlio a tutti i costi’) che poi nel 2018 è andato nelle sale su tutto il territorio nazionale. Tra le commedie ‘L’apparenza inganna’, ‘La settimana bianca’, ‘Oscar, il fidanzato di mia figlia’, e tante altre. E poi alcuni atti unici: ‘Non ti lascio’, ‘Non ti sopporto più’… Insomma, ho scritto tanto per il teatro perché credo che un autore abbia il dovere di denunciare certe cose e rappresentarle, perché magari la gente è distratta e l’autore ha il dovere di ricordargliele. E questo vale per il teatro ma anche per il cinema e per qualsiasi forma di spettacolo.
Ha parlato di cinema. Quanta soddisfazione le ha dato il cinema e pensa ancora di fare tutte e due le cose o il teatro è proprio la sua casa, la sua vita?
Le due forme d’arte sono ambedue bellissime e gratificanti. Il film che ho fatto mi dato molta soddisfazione e ne sono orgoglioso. Ogni volta che mi capita di rivederlo, mi dico che come prima esperienza è andata bene. Ho scritto la sceneggiatura per un secondo film, però in teatro, avendo una casa a disposizione, è senz’altro più facile mettere in scena uno spettacolo. Ma sono sincero: il cinema mi piace tanto, mi piace farlo, mi piace tantissimo guardarlo, però il teatro è il mio primo e forse unico grande amore.
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