Il brano biblico del tributo a Cesare è collocato nel contesto degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme ed è finalizzato a evidenziare il contrasto crescente tra Gesù e i capi del popolo. Gli avversari di Gesù, impossibilitati ad arrestarlo per la stima che godeva presso il popolo, cercano di avere ragione di lui cogliendolo in fallo (v. 15).
Il tributo a Cesare apre la serie delle quattro controversie finalizzate a mettere Gesù in difficoltà, inducendolo a fare dichiarazioni che lo pongano in cattiva luce presso il popolo. Gesù supera da vero Maestro, una dopo l’altra, le domande insidiose che gli sono rivolte. Lui stesso infine passerà all’attacco mettendo i suoi avversari di fronte a una questione fondamentale, relativa alla vera natura e personalità del Messia, alla quale non daranno risposta (22, 41-45). Mediante questi scontri, l’evangelista prepara il capitolo successivo, nel quale Gesù pronuncerà la sua requisitoria contro la falsa giustizia di scribi e farisei.
La Palestina era occupata dai romani e soggetta alle leggi di Roma. Segno di questo assoggettamento era il tributo che i Giudei dovevano versare all’erario romano. Per quanto riguarda il pagamento del tributo, tra gli stessi ebrei vi erano posizioni divergenti: per gli “erodiani” (filoromani) il tributo non costituiva problema; gli “zeloti”, contrari alla presenza romana, vi si opponevano e incitavano alla lotta armata contro Roma; i “farisei” pagavano rassegnati la tassa per evitare il peggio.
Farisei ed erodiani inviano a Gesù una delegazione con una domanda trabocchetto messa insieme con grande abilità: “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (v. 17). Qualunque sia la risposta, Gesù è perduto: se si pronuncia contro il versamento del tributo sarà subito denunciato come pericoloso agitatore del popolo e sovvertitore delle leggi di Roma; se invece si dichiara favorevole al pagamento, cesserà di apparire agli occhi del popolo come il messia atteso.
Questa controversia pone a confronto Gesù e gli interroganti. Vengono forniti due ritratti completamente diversi. Gesù è definito dagli stessi interlocutori un maestro “veritiero” (v. 16), che insegna la via di Dio “secondo verità” e che “non guarda in faccia a nessuno”. Un uomo franco, lineare, che dice ciò che è vero. Invece, i suoi interlocutori sono persone maliziose, capaci di fingere per trarre in inganno (v. 18).
Gesù si fa mostrare una moneta e sposta la questione dal piano ideologico a quello pratico. La moneta mostra in modo inequivocabile che i giudei sudditi di Roma, godono i vantaggi dell’amministrazione romana e quindi devono dare il loro contributo. Questo è quanto Gesù afferma nella prima parte della risposta: “Date a Cesare quel che è di Cesare” (v. 21).
La seconda parte della risposta chiarisce che pagare il tributo a Cesare non è in contrasto con il rendere a Dio quel che gli è dovuto, cioè adorazione e obbedienza: “…e a Dio quel che è di Dio” (v. 21). La congiunzione “e” nella risposta di Gesù va intesa in senso avversativo: “ma” a Dio quello che è di Dio. Cesare (lo Stato) ha un suo ruolo da svolgere e ci sono dei doveri nei suoi confronti che non si possono misconoscere. Tuttavia, il valore assoluto è Dio e nessun potere umano può avocare a sé diritti che spettano solo a Dio.
Il fatto che questi due doveri siano giustapposti non sta a indicare la loro incompatibilità. Gli zeloti sbagliavano quando contrapponevano l’obbedienza a Cesare e l’obbedienza a Dio, si tratta di due piani diversi. Questo tuttavia non significa che Gesù giustificasse la presenza romana in Palestina, la sua risposta si limita a commentare il fatto che la moneta rappresentava Cesare e che quindi l’uso di tale moneta dimostrava l’accettazione della dominazione e amministrazione romana. Se la moneta deve essere restituita a Cesare perché porta la sua immagine, anche l’uomo deve essere restituito a Dio, perché creato a immagine di Dio (Gen. 1, 26).
Il cristiano rifiuta di far coincidere per intero la sua coscienza con gli interessi dello Stato. Afferma il primato di Dio ed è perciò, in radice, un possibile “obiettore di coscienza”. E’ un pensiero che va affermato con forza: la radice della libertà di coscienza è il riconoscimento del primato di Dio. La preoccupazione di Gesù è quella di salvaguardare, in ogni situazione politica, i diritti di Dio. Ci sono anche i diritti dello Stato, e quando lo Stato rimane nel suo ambito questi diritti si tramutano in doveri di coscienza. Ma lo Stato non può erigersi a valore assoluto: ogni potere politico, romano o no, di cristiani o non cristiani, non può arrogarsi diritti che competono soltanto a Dio, non può assorbire tutto il cuore dell’uomo, non può sostituirsi alla coscienza.
Il problema se sia possibile tracciare una linea di demarcazione fra le legittime richieste della società e dello Stato e le richieste di fedeltà a Dio si è presentato, si presenta e si ripresenterà sempre. La soluzione prospettata da Gesù invita a soppesare di volta in volta le richieste dello Stato e della società, tenendo presente che il valore assoluto rimane sempre e comunque Dio.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Boscolo, 2020; Maggioni, in Boscolo, 2020.
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