Nel 2010 i crolli sequenziali dei nostri beni culturali venivano mascherati da situazioni e problematiche di altra natura e ad oggi la situazione sembra essersi rovesciata, con il dissesto idrogeologico che ruba quotidianamente le prime pagine dei giornali offuscando le numerose carenze che il comparto turistico vantava già 4 anni fa. Mi riferisco alla quantità ma soprattutto alla qualità dei servizi turistici offerti ai numerosi visitatori che ogni anno percorrono la nostra penisola. Qualche anno or sono, diverse tesate giornalistiche locali sparse per l’Italia, iniziarono a riportare la delusione e in alcuni casi l’ira dei turisti, dando vita ad una lunga serie di dossier giornalistici incentrati su questo tipo di tematiche. Ne risultò una quadratura al quanto inimmaginabile e insostenibile, dove la qualità dei servizi offerti, risultava decisamente obsoleta e non in linea con gli altri paesi europei. Peggio di noi soltanto alcune aree della Spagna, del Portogallo e dei Balcani. Le restanti nazioni, se pur con un profilo turistico differente, riuscivano ad offrire un servizio che in termini di costi-benefici, superava di gran lunga la reale situazione italiana.
Attualmente il nostro Paese può vantare quasi 40 milioni di turisti in relazione a musei e aree archeologiche, un dato a dir poco sensazionale ma che in termini di profitto risulta decisamente inconsistente per non dire vergognoso. Distogliendo lo sguardo per un attimo dalle grandi città e da poli attrattivi quali Roma, Firenze e Pompei, non si possono negare le evidenti difficoltà oggettive che divampano sulle altre realtà turistico-culturali. Partendo dal presupposto che la stragrande maggioranza dei visitatori non viene mediaticamente e promozionalmente indirizzata in una buona fetta del nostro territorio, la qualità dei servizi nelle aree periferiche tende inevitabilmente a processare verso una serie di criteri del tutto insufficienti. Si può far finta che questa situazione non esista ma nel momento in cui ci ritroviamo a tirare le somme, diventa innegabile e paradossale il gap concettuale che lega la domanda con l’offerta o peggio ancora, con gli introiti ricavati.
Ed è così che la sola Pompei con più di 2 milioni di visitatori annui, riesce ad incassare meno del solo parcheggio del Metropolitan Museum e a dare lavoro a pochissimi custodi che a malapena riescono a vigilare su appena un quinto dei 66 ettari di area archeologica. Per cui turisti lasciati allo sbando e per di più beffati dalla chiusura quasi totale delle domus e degli altri tratti interdetti a causa dell’inagibilità strutturale. Chi da Pompei trae beneficio invece, sono gli inglesi che utilizzando pochissimi reperti provenienti dall’antica città campana, fanno registrare quasi 500.000 visitatori con un ricavo per nulla paragonabile al citato sito archeologico. L’implosione architettonica che sta subendo Pompei potrebbe peggiorare e imbattersi in una strada senza ritorno, qualora i finanziamenti stanziati dalla Commissione Europea non trovassero le giuste cantierizzazioni all’interno dell’area che vedrà scadere il beneficio economico nel 2015. Sinora sono stati utilizzati nell’ultimo periodo soltanto 79 milioni di euro con la disponibilità di altri 105 milioni ma allo stato attuale, con la morsa burocratica e la gestione disorganizzata, anche i più ottimisti iniziano a vacillare.
Stesso discorso per diverse realtà del sud Italia ma al contempo anche a Roma la situazione non è delle migliori. Il Colosseo affascina ma riesce anche a deludere, fortificato da cinque milioni di turisti ma immerso in una situazione caotica, espressa tra l’altro da un approfondito studio di TripAdvisor che fa notare come un monumento simbolo di una civiltà, non faccia respirare o immaginare più nulla dell’antica romanità, offuscata per di più dall’acqua minerale più costosa al mondo e dall’invadenza studiata dei neocenturioni. Dunque la strada della valorizzazione è assai lontana e quando a constatarlo sono studi del settore turistico o di eminenti testate americane, c’è poco da stare sereni. Nell’enfatizzazione generale è stato espresso un dato -non motivato- secondo cui gli introiti derivati dal biglietto di ingresso dell’anfiteatro, coprirebbero la manutenzione di tutte le altre importanti realtà culturali della capitale: un dato estremamente ottimistico e di chiara connotazione politica, dal momento che diversi direttori di musei arrancano nel tenere in piedi anche prestigiose strutture.
Firenze continua a salire in quanto a turisti e incassi ma anche qui gli studi di settore fanno registrare delle cocenti delusioni, dettate da alcuni monumenti e ville inaccessibili che per larga parte rappresentano il valore attrattivo che evidentemente non è più espresso dai soli Uffizi. Torino prova a ripartire dal suo museo simbolo, quello Egizio, con tanto di nuovo direttore che indubbiamente dovrà rispolverare l’antica mission della struttura, rimettendo in moto il prestigioso processo scientifico che da qualche anno è stato sostituito da striminzite e posticce guide turistiche.
Se davvero si vuol puntare su turismo e cultura non si può evitare di investire concretamente, tanto meno risultare ciechi di fronte le nuove frontiere della valorizzazione provenienti da mezzo mondo che oltre a promuovere i beni culturali, fortificano e massimizzano il concetto economico in favore della propria comunità, esulando da ogni atto di servilismo politico-economico. C’è chi dei propri beni mobili ne fa interscambio o chi addirittura sacralizza le proprie bellezze, rendendole fruibili e investendo affinché la maggior parte degli uomini ne possa godere a pieno. Conservare e valorizzare non sono semplici pratiche burocratiche per ottenere e salvare la maggior quantità possibile di fondi europei ma rappresentano, per dirla alla Roosevelt, «….la creazione del massimo vantaggio possibile per il maggior numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile», riferendosi ai parchi e alle bellezze naturalistiche che contrariamente a noi, non definiva “petrolio”.
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