Cultura

Il Velabro, ieri e oggi: tra leggenda e realtà

Lazio, ansa del Tevere, VIII secolo AC

Secondo la leggenda una cesta contenente due gemelli si arena in un’ansa del Tevere sotto il Palatino.
Il loro pianto viene udito da una lupa che li adotta e li allatta nei primi giorni.
In seguito, Faustolo, un pastore, e la moglie, Acca Larenzia, sostituiscono la lupa finché i gemelli non diventano grandi e desiderosi di fare grandi cose, come, ad esempio, fondare una città.
Eccoli dunque, uno sull’Aventino, uno sul Palatino, a scrutare il cielo e contare gli avvoltoi.
Remo, per primo, ne scorge sei, Romolo, per secondo, dodici.
Segue una violenta colluttazione che risolve, con la morte di Remo, il dilemma se conti più il numero o il momento dell’avvistamento.
Romolo afferra un aratro e traccia il solco all’interno del quale sorgerà la caput mundi.
L’area prescelta è quella della prima infanzia dei due gemelli, proprio quella palude tra le anse del Fiume che i Romani chiameranno Velabro.

9 maggio 1993 – il discorso contro la mafia di Papa Wojtlyla

È passato solo un anno dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Dalla Valle dei templi di Agrigento, Papa Giovanni Paolo II scaglia con violenza contro gli “uomini di mafia” il suo famoso anatema.
“Una volta Dio ha detto: ‘Non uccidere’. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio… Nel nome di Cristo crocifisso e risorto… mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi. Un giorno arriverà il giudizio di Dio”.

28 Luglio 1993 ore 00.08 – l’attentato mafioso al Velabro.

Sono passati circa 2700 anni dal giorno in cui le mani gentili di Rea Silvia affidano la culla con i suoi due gemelli alle acque placide del Tevere.
Un auto carica di 100 kg di esplosivo parcheggiata davanti l’ingresso della chiesa di San Giorgio al Velabro ne riduce in poltiglia il portico duecentesco oltre a causare svariati danni strutturali. Nessuna vittima, diversi feriti, più di venti considerando l’attentato gemello a San Giovanni in Laterano e un unico responsabile: Cosa Nostra.
Una risposta al discorso del Papa, per alcuni, per altri, una intimidazione agli allora Presidenti delle due Camere: Spadolini e Napolitano.
Due gemelli, agli albori della storia, portano alla nascita di quella città che un giorno dominerà il mondo.
Due attentati gemelli, quasi tremila anni dopo, mirano alla sua distruzione.

Il Velabro, oggi

A dir la verità non ho in programma una visita.
Sono semplicemente in anticipo a un appuntamento con mia figlia.
Mi appoggio con la schiena a un muro dove c’è un po’ d’ombra e mi guardo intorno.
Basta una rapida occhiata per realizzare quanto sia incredibilmente ricca di tesori l’area in cui mi trovo.
A destra la magnifica silhouette del Tempio di Portunus, divinità dei porti fluviali, noto anche come Tempo della Fortuna Virile, uno dei primi monumenti in marmo della Roma del IV secolo AC.
Poco più in là, il Tempio di Ercole Vincitore, protettore dei commercianti che svolgevano la propria attività nel Foro Boario, la zona dedicata al mercato del bestiame, proprio dove mi trovo io.
Di fronte al Tempio, il campanile della Basilica di Santa Maria in Cosmedin realizzato verso l’anno 1100 in laterizi e “pietre di spoglio”, cioè materiale ricavato dai monumenti antichi, domina Piazza della Bocca della Verità.
Decine di turisti in fila lungo la cancellata che costeggia l’ingresso della Chiesa sfidano il caldo torrido per infilare una mano nel disco marmoreo con le fattezze di un volto maschile con barba, occhi, naso e bocca forati, un tempo “semplice tombino della Cloaca Massima.
E poi l’imponente e austero Arco di Giano o, meglio, Arcus Divi Costantini costruito dai figli di Costantino in onore del padre, alla sua morte, sopravvissuto nel tempo perché utilizzato nel Medioevo come base della torre della potentissima famiglia dei Frangipane.
Alla sua sinistra, un altro tesoro di una città unica, San Giorgio al Velabro, di antichissima fondazione, anch’essa dotata di campanile romanico, una pianta stranissima, trapezoidale, con il lato in cui si apre l’ingresso più lungo di quello dov’è l’altare e un altro arco, quello degli Argentari, che poi è un architrave del VII secolo eretto per volontà di Settimio Severo, nel quale il primo imperatore africano di Roma è ritratto con la moglie, Giulia Domna, forse una delle prime “influencer” della storia, le cui acconciature erano copiate dalle donne della Roma di quel tempo.
Non posso non citare la Basilica di San Nicola in Carcere, l’ultimo tesoro del mio orizzonte mobile e l’ultimo baluardo prima della meraviglia delle meraviglie, il Campidoglio, le colonne dei templi di Giunone e Giano come alberi secolari che affondano le radici nei suoi sotterranei e il tronco incastonato nelle mura laterali, le 14 colonne tutte diverse, tutte provenienti da antichi templi, eppure espressione di quell’armonia che qui, a Roma, si ritrova ovunque.

La linea retta della storia

Abbracciare con il solo sguardo la città eterna e la sua storia, in questo luogo è possibile.
Grato per questo miracolo, decido di spostarmi.
Attraverso via Petroselli e mi dirigo verso l’arco di Giano.
Tra me e lui, c’è solo la piccola via di San Giovanni Decollato, costruita alla fine del ‘400 dall‘Arciconfraternita di San Giovanni Decollato e totalmente affrescata da artisti toscani del ‘500.
Un’autentica meraviglia poco conosciuta.
Ma il destino ha in serbo un sorpresa per me.
Con la coda dell’occhio mi accorgo di un uomo intento a fumare sulla scala esterna della splendida Chiesa cinquecentesca da cui la strada prende il nome.
È la chiesa dove mi sono sposato ventisette anni fa’ e che da allora non ho mai più trovato aperta.
Mi blocco in mezzo alla strada, poi mi precipito verso quella figura che osserva incuriosita il mio avvicinarmi scomposto e trafelato.
È un operaio di una ditta che sta ristrutturando il chiostro.
Gli racconto la storia del mio matrimonio e lui si impietosisce.
Porta l’indice di una mano sulla bocca e con l’altra mi fa cenno di seguirlo.
Così entro nel chiostro, nel pieno dei lavori di ristrutturazione e mentre cammino in silenzio sotto le arcate dei porticati del ‘500, dove ora sono le impalcature del XXI secolo, l’emozione mi travolge.
L’operaio mi guarda in rispettoso silenzio, poi allarga le braccia e si volta verso l’uscita.
Il mio tempo è scaduto.
Lo abbraccio e lo ringrazio, mentre il suo sorriso imbarazzato e divertito accompagna il mio dirigermi verso l’arco di Giano e San Giorgio al Velabro.
Imbocco una piccola scala, poi una passatoia che mi permette quasi di toccare l’arco e osservarne tutti i particolari.
Da vicino è ancora più impressionante che da lontano, la sua pianta quadrangolare, con quattro pilastri di sostegno coperti da una volta a crociera su cui poggiava un alto attico lo rendono totalmente diverso dagli tutti gli altri archi onorari dell’antica Roma. Le file di nicchie decorano i pilastri e al loro interno erano collocate in origine 48 statue.
Doveva essere davvero spettacolare.
Proseguo.
Qualche passo e sono all’ingresso di San Giorgio al Velabro.
Il portone aperto separa la luce accecante esterna dal buio interno della chiesa.
Noto subito la targa marmorea in bella vista posta a ricordo dal comune di Roma a trent’anni dall’attentato e un brivido mi corre lungo la schiena mentre varco la soglia della chiesa ed entro al suo interno.
Sono solo.
Nell’oscurità e nel silenzio mi aggiro tra la doppia fila di colonne marmoree con capitelli ionici e corinzi finché non arrivo nei pressi dell’altare dove si erge uno splendido ciborio cosmatesco che punta verso l’affresco della volta absidale, un dipinto dai colori sgargianti attribuito prima a Giotto e poi a Cavallini con il Cristo al centro e Maria e San Giorgio ai lati.
Infine esco.
L’ultimo regalo di un pomeriggio dai risvolti inattesi è la visione del Tempio di Ercole Vincitore attraverso i quattro pilastri di sostegno dell’arco di Giano.
Qui, nel luogo dove si arenò la cesta con Romolo e Remo, una linea retta unisce quasi tremila anni di storia.
La mia linea retta invece mi porta all’appuntamento con mia figlia che paziente attende il mio ritorno al 2024 e sorride mentre mi guarda arrivare intuendo il motivo del mio ritardo.
Ma questa è un’altra storia…

Luca Laurenti

Romano, è Biologo Patologo Clinico. Scrittore, vincitore di numerosi premi letterari nazionali e internazionali di narrativa, è da molti anni impegnato nella denuncia del degrado di Roma.

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