Il vangelo (Lc. 14, 25-33) di questa domenica, 23^ del Tempo ordinario, ricorda le condizioni richieste a colui che aspira sinceramente a vivere da discepolo autentico di Cristo. Il brano che ascolteremo appartiene alla sezione centrale del vangelo di Luca, creata in modo artificioso dall’evangelista, denominata dagli studiosi “il lungo racconto di un viaggio che porta Gesù dalla Galilea a Gerusalemme”, e dove Luca raduna tutte le informazioni conosciute dalle sue fonti specifiche. Con queste premesse e in considerazione del carattere artificioso del nostro brano evangelico, non dobbiamo meravigliarci se non troviamo in esso tutta l’armonia che ci aspetteremmo.
Innanzitutto, nelle due brevi parabole, sia il costruttore della torre che il re in guerra possono rinunciare al loro progetto. Invece, l’applicazione morale fatta al v. 33 (“Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”), non consente alcuna possibilità di scelta: chi vuol essere discepolo di Cristo in vista della salvezza eterna deve accettare tutti i sacrifici. Inoltre, se il v. 33 esige che il discepolo di Cristo abbandoni i propri beni, il v. 26 (“Se uno…non mi ama più di quanto ami suo padre…”) giunge fino ad esigere che rinunci agli affetti anche legittimi, e alla sua stessa vita, se così vuole la causa di Cristo. Infine, mentre le due parabole parlano delle condizioni a cui devono sottomettersi il costruttore della torre e il re in battaglia prima di impegnarsi nella loro rispettiva impresa, l’applicazione del v. 33 riguarda i discepoli già impegnati.
Le esigenze della condizione di discepolo.
Il distacco assoluto (vv. 26-27). Per seguire Gesù bisogna volerlo in piena coscienza: la condizione di discepolo esige la rinuncia interiore agli affetti familiari e alla propria vita. San Luca, rispetto a San Matteo, usa il verbo “odiare”. E’ chiaro che questo linguaggio paradossale ( “Se uno non odia…”) tende a fare impressione. E’ possibile che il Maestro, il quale prescrive di amare perfino i nemici, si contraddica così palesemente? Gesù esige un amore assoluto, una realtà totale e, secondo il significato etimologico del termine latino, una “devozione” alla sua persona che non ammette divisioni né condizioni: il servizio e l’amore di Cristo devono puramente e semplicemente prevalere. Infatti, Gesù è lo sposo, e l’uomo è fatto per unirsi a lui in un’unica carne in Cristo. Con queste parole l’evangelista richiama la situazione concreta dei primissimi discepoli di Cristo: per essi seguire Cristo significava alienarsi praticamente la famiglia, accettare la condizione di essere gli ultimi nella scala sociale nell’ambiente palestinese. Lungo i secoli, queste parole di Cristo hanno trovato una profonda risonanza nella vita di molti cristiani.
Portare la propria croce.
La croce è diventata una metafora (significato figurato) per indicare tutti gli avvenimenti che, nel corso della vita, ci urgono, ci inquietano e ci fanno soffrire. “Portare la propria croce” significa semplicemente entrare nelle intenzioni divine accettando con generosità questi avvenimenti dolorosi come strumenti della nostra salvezza, come mezzi provvidenziali per fare avanzare il regno di Dio. Non solo: “portare la propria croce” significa anche e soprattutto abbandonare la propria esistenza, essere disposti a sopportare tutto, anche la morte, per la causa di Cristo. Il vero discepolo deve acconsentire a trovarsi nella condizione di un condannato a morte che porta personalmente lo strumento del proprio supplizio.
Ma è naturale che dopo la Pasqua, ossia dopo il drammatico avvenimento del Venerdì Santo, l’espressione di Cristo “chi non porta la propria croce” abbia assunto un significato ancora più profondo. Istintivamente, l’espressione evoca allora l’immagine di Cristo, l’uomo dei dolori, che cammina con passo incerto sotto la propria croce. Per noi che viviamo a venti secoli di distanza, la parola di Cristo è un invito patetico a seguirlo sulla via del Calvario, a prendere parte personalmente alla sua sofferenza, alla sua passione e alla sua morte.
Andare dietro a Gesù.
L’affermazione di portare la propria croce esige anche che si cammini dietro a Gesù sulla via che conduce alla croce. Queste due esigenze vanno quasi sempre insieme e si chiariscono vicendevolmente. Gli autori sono persuasi che l’unificazione dei due temi “camminare dietro Gesù” e “portare la propria croce” si sia realizzata dopo la Pasqua e sotto la spinta del tragico avvenimento del Venerdì santo. Vi è comunione di sofferenza tra Cristo e il fedele, e questa comunione è un elemento inerente all’esistenza del discepolo. Essere in comunione di sofferenza con Gesù costituisce l’essenza stessa della condizione di discepolo.
Rinunciare a tutto quello che si possiede.
E’ la sintesi del discorso: l’unica ricchezza del discepolo è la sua povertà; ciò che deve avere, è avere nulla. La sua unica forza è la sua debolezza: la povertà e l’elemosina sono la condizione per seguire Gesù. la povertà è il volto concreto dell’amore: chi ama dà tutto quello che ha. Quando non ha più nulla, dà se stesso ed è se stesso. Per questo chi non rinuncia a tutto, dilapida tutto.
La croce quotidiana è questa povertà di cose e di affetti.
Le due parabole, quella del costruttore della torre e del re in battaglia, mettono seriamente in guardia contro ogni impegno superficiale. Nella prima parabola, l’opera di ampio respiro intrapresa dal costruttore esige riflessione e prudenza. Egli si trova di fronte ad una alternativa: rinunciare o accettare i sacrifici necessari. Chi vuol essere discepolo di Cristo deve rendersi conto dei sacrifici che si impongono e mostrarsi disposto ad accettarli di buon grado. Anche nella seconda parabola, il re si mette prima a sedere per riflettere se la situazione si profila nettamente svantaggiosa. In questo caso la saggezza gli impone di rinunciare alla guerra. Così colui che aspira a diventare discepolo di Cristo, se non vuol perdersi, deve accettare tutti i sacrifici che si impongono: rinunciare agli affetti più cari e portare la propria croce.
C’è di più: Luca non pensa soltanto a quello che bisogna fare per essere discepolo, ma a ciò che caratterizza il modo di esserlo alla condizione del discepolo già pienamente impegnato. Nella sua prospettiva, questo fatto implica che la rinuncia assoluta si impone indistintamente a tutti coloro che, in tutti i tempi, aspirano sinceramente a vivere da discepoli di Cristo. Per riprendere un’espressione cara al cardinal Newman, il discepolo di Cristo altro non deve fare che attenersi ad una “resa incondizionata” a Cristo, il valore supremo.
Bibliografia consultata: Seynaeve, 1973; Fausti, 2011.
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