Qui in Italia è il problema numero uno, insieme a quello economico: la questione degli immigrati spacca il Paese e non lascia margini di mediazione.
Gran parte della popolazione si è stufata del lassismo in stile PD e smania per un drastico cambio di rotta: torniamo a chiamarli clandestini, invece di ricorrere all’eufemistico ‘migranti’, e chiudiamogli le porte. Ovvero i confini. Uno, impediamo a quelli che hanno in programma di venire di arrivare davvero. Due, rispediamo indietro quelli che sono arrivati senza titolo. Tanto più se sono delinquenti conclamati.
La parte residua – residua ma niente affatto marginale – la pensa in modo opposto. Sedotta dalle sirene della solidarietà e dell’umanitarismo, predica l’accoglienza pressoché illimitata e vorrebbe leggi che fossero le meno restrittive possibili. Uno, agevoliamo al massimo l’integrazione di chi è già arrivato. Due, teniamoci pronti a fare lo stesso con chi arriverà in futuro.
Ad accomunare entrambe le fazioni, ma per ragioni opposte, è la leadership di Matteo Salvini. Per i guardiani del rigore è il Capitano che guiderà la riscossa nazionale al grido di “prima gli italiani”. Per gli apostoli della morbidezza è il capintesta di una massa di oscurantisti che ci sta spingendo verso una società chiusa e retriva di stampo fascista, o almeno fascistoide.
Fino a qualche decennio fa si sarebbe parlato di scontro ideologico. Oggi, visto che a quanto ci raccontano gli ‘esperti’ le ideologie non esistono più, bisogna accontentarsi di un termine meno ampio: contrapposizione. Che però, su questo tema e come ricordavamo all’inizio, è talmente forte da essere inconciliabile.
Chi pensa alla patria come continuità di stirpe sa, o intuisce, che la nazionalità non è una giacchetta prêt-à-porter che chiunque può indossare solo perché ne ha voglia. Chi invece crede che siamo tutti cittadini del mondo, i quali per puro caso sono nati in Africa anziché in Europa, o in Asia anziché in America, dà per certo che basti imparare la lingua del posto e non violare le leggi locali per trasformarsi in quattro e quattr’otto da maghrebino in finlandese, da cambogiano in statunitense, da kenyota in italiano.
Maurizio Martina è in corsa per la segreteria del PD e quindi la sua potrebbe anche essere una classica sortita propagandistica.
In un partito che è quanto mai frammentato, tra le beghe dei vertici e il disorientamento della base, c’è un bisogno disperato di parole d’ordine sulle quali provare a compattarsi. E quella dell’appoggio ai ‘migranti’ si presta allo scopo: riecheggia alcuni valori della Sinistra che fu, dall’internazionalismo al riscatto dei diseredati, e consente gradevoli avvicinamenti al mondo di matrice democristiana, visto che Papa Francesco condivide l’afflato umanitario e si è appena affrettato a lodare il Global Compact.
Una volta si sarebbe parlato di “cattocomunisti”, ma anche questa parola è stata depennata dal lessico della politica: e sostituirla con postcatto-postcomunisti non è obiettivamente il massimo. La cacofonia è stridente. Anche se in fondo rispecchia bene la ‘cacologia’ di queste convergenze: sentimentali per la base, calcolatissime per i vertici.
Termini a parte, la questione è ben più sostanziale.
Dice Martina: “Rilanciamo la battaglia contro la Bossi Fini e contro il decreto Salvini, che va osteggiato anche raccogliendo firme per la sua abrogazione con un referendum. Bisogna raccontare la distanza tra la propaganda leghista e i temi veri della sicurezza e dell’integrazione. Quando rischi con il decreto Salvini di lasciare per strada centomila irregolari in due anni stai generando più insicurezza. La scommessa che dobbiamo fare è l’integrazione nei diritti e nei doveri. Per questo, noi proponiamo un modello alternativo a quello di Salvini”.
Se quella è la scommessa a lungo termine, quella ravvicinata sarebbe invece il referendum. Ammesso che lo si faccia davvero. Ammesso che lo si voglia fare davvero.
Martina, forse, confida che di qui all’eventuale ricorso alle urne il quadro politico sarà mutato parecchio. Lungo la strada, infatti, ci sono snodi cruciali come la tenuta del governo Conte e le Europee, per cui la forza attuale di Salvini potrebbe nel frattempo non essere più ai livelli di oggi. E non c’è dubbio che l’elettorato abbia già dato le più ampie dimostrazioni, vedi la repentina ascesa e la malinconica debacle di Matteo Renzi, di non essere più legato stabilmente a nessun partito e a nessun leader.
Ma qui non si tratta di elezioni. Si tratta di referendum. E su un tema come l’immigrazione, che tocca la carne viva di così tante persone, è molto meno probabile che gli orientamenti siano altrettanto ondivaghi.
Chi oggi si sente invaso dagli stranieri, e trattato peggio degli ultimi venuti, non smetterà di provare la stessa rabbia. La stessa ostilità. Lo stesso desiderio, o la stessa necessità, di rivalsa.
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