Il nostro brano evangelico (Mt. 23, 1-12) fa leva su due registri: una critica degli abusi e deformazioni dell’autorità religiosa ebraica e la proposta in positivo di giusti rapporti nella comunità cristiana.
Il vangelo di questa domenica fa parte dell’ampia requisitoria contro gli scribi e i farisei, dichiarati “ipocriti”, e che nella seconda parte è ritmata dalla serie dei sette “guai”, il giudizio profetico di condanna. Il discorso, rivolto alla folla e ai discepoli (v. 1), ha una doppia valenza: la denuncia esemplare dell’infedeltà dell’Israele storico, rappresentato dai suoi capi spirituali; la messa in guardia contro il rischio del formalismo religioso che snatura la volontà di Dio e l’esperienza religiosa.
Gesù inizia il suo discorso riconoscendo l’autorità religiosa degli scribi e dei farisei: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno” (v. 3). Quello che viene contestato alle autorità religiose ebraiche è l’incoerenza, tanto più grave in quanto i capi spirituali sono interpreti della tradizione religiosa che risale a Mosè. Una prova di questa incoerenza è derivata dal formalismo legale oppressivo: “Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito” (v. 4).
A questa prima denuncia dell’incoerenza, un tema che sta particolarmente a cuore all’evangelista Matteo, segue una seconda denuncia che mette in risalto le deformazioni spirituali tipiche dei farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente” (v. 5). Questo è l’atteggiamento che, nella tradizione evangelica di Matteo, viene chiamato “ipocrisia”. L’esibizionismo religioso si avvale delle pratiche e devozioni per assicurarsi una fetta di prestigio, al quale sono connessi anche dei vantaggi economici e sociali. Il vangelo elenca sei situazioni in cui appare questa vanità esibizionistica dei capi ebrei, adducendo così esempi tratti dalle usanze di una comunità ebraica osservante (vv. 5-7).
La seconda parte si rivolge ai discepoli e propone l’applicazione di questa critica delle deformazioni religiose dei capi ebrei alla comunità cristiana. Sono tre esempi in forma di regola comunitaria. Mentre i maestri ebrei amano farsi chiamare “rabbì” dalla gente, “voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (v. 8). Non è in discussione tanto un titolo, quanto un ruolo di prestigio religioso-spirituale, che è concorrente con l’unica autorità riconosciuta nella comunità cristiana: Cristo, maestro e guida, il quale rimanda al Padre celeste.
La comunità dei credenti che ha riconosciuto, per mezzo di Gesù, Dio come Padre, è una comunità di figli, fratelli e sorelle. Questo è lo statuto religioso che esclude qualsiasi carrierismo anche sotto coperture devote.
In termini positivi Matteo ripropone alla fine una sentenza della tradizione evangelica comune: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (v. 11). Questo linguaggio richiama il giudizio di Dio, per cui i rapporti corretti all’interno della comunità, secondo lo stile del servo, non sono solo una scelta consigliata, ma la condizione per essere alla fine accolti nel giudizio con una sentenza di salvezza.
L’evangelista riporta queste affermazioni per una comunità che al suo interno corre un duplice rischio: tra i membri della comunità serpeggia la tendenza al formalismo religioso e all’esibizionismo; dall’altra parte il ruolo dei capi, profeti e maestri, corre il rischio di riprodurre l’autoritarismo del magistero rabbinico.
La novità del brano evangelico circa i rapporti tra i cristiani nell’ambito della comunità è la motivazione di fondo. I cristiani sono “tutti fratelli e sorelle” perché essi hanno un solo Padre (v. 9), quello celeste. Per quanto riguarda il ruolo di “maestro” questo è riservato all’unico “Maestro” che interpreta in modo autorevole e definitivo la volontà del Padre: Gesù Cristo, il Figlio. A lui infatti è stato dato tutto dal Padre. Perciò nessuno può conoscere il Padre se non tramite il Figlio e viceversa (Mt. 11, 27). Al seguito di Gesù, i discepoli non fanno carriera per diventare a loro volta maestri. Essi rimangono sempre “discepoli” e “servi” che si ispirano al modello del loro “maestro” e “Signore”.
Tentazione antica, costantemente in agguato, quella della “visibilità”, dell’esibizionismo: il postino che si spaccia per mittente della lettera che consegna, il profeta che si mette al posto di Dio, il sacerdote che si arroga le prerogative del suo Signore. Perché è così bello presentare una sentenza del Signore, ma anche a mettersi a sentenziare. Gesù mette le cose al loro posto. Uno solo è il Maestro, uno solo è il Padre. Ogni titolo di questo genere è usurpato. E genera confusione, distrae da ciò che è essenziale.
E l’essenziale è il fatto che tutti siamo fratelli e sorelle, che tutti siamo discepoli. E che chi vuol essere il primo, il più grande, si mette a servizio! Gesù ci ha mostrato con i fatti cosa vuol dire essere a servizio: lui che si è esposto, lui che si è offerto, lui che ha affrontato per amore anche l’odio, anche la cattiveria, anche l’insulto e lo scherno, anche la sofferenza più atroce.
Per questo quando parla possiamo stare ad ascoltarlo: le sue parole sono avvalorate dai fatti. I suoi gesti non sono riti a effetto: il pane spezzato, la lavanda ai piedi sono la realtà incarnata nella vita di tutti i giorni. Davanti al suo esempio siamo disposti a farci convincere e a prendere la divisa che ha messo nelle nostre mani: un grembiule che fa da asciugatoio, una brocca e un catino.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: SdP, 2023; Laurita, 2023.
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