Intervista al premio Strega Walter Siti
“Scrivere è il modo più ingegnoso di mentire a se stessi” e “La famiglia tradizionale è fottuta”
Nel suo ultimo romanzo “Resistere Non Serve a Niente" (ed. Rizzoli), vincitore del Premio Strega 2013, Walter Siti, scrittore, saggista, curatore dell’opera completa di Pier Paolo Pasolini, docente universitario in pensione, racconta di Tommaso, un uomo ricco, ex obeso e matematico, con un padre detenuto, che vive in bilico tra legalità e illegalità, in un mondo dove si tramutano soldi sporchi in soldi puliti e ogni contorno etico sembra sempre più sfumato a vantaggio di desideri di ricchezza e di riscatto sociale, a ogni costo.
Walter Siti è presente anche in questo suo ultimo romanzo, ma in veste di narratore onnisciente. Quanto autobiografismo c’è nelle sue narrazioni?
Moltissimo, è il modo più ingegnoso di mentire a se stessi.
Lei apre “Resistere Non Serve a Niente” con una sorta di escamotage narrativo. Un articolo che inizialmente non sembra tale, in cui a un certo punto usa l'espressione ‘prostituzione percepita’. Che cosa intende?
Semplicemente che per molti ragazzi e ragazze, oggi, è difficile capire se si stanno prostituendo o no; perché il corpo non è più quel tempio dell’intimità che era nel secolo scorso.
Sarebbe d’accordo nel riaprire le ‘case chiuse’ o, almeno, nel legittimare fiscalmente la professione di prostituta?
Dato che il mestiere esiste, perché non riconoscerlo anche ai fini fiscali? Quanto alle case chiuse temo che (a parte rare eccezioni) finirebbero in mano alla criminalità; in ogni caso, ho l’impressione che molti preferiscano avere rapporti con chi pratica la professione in modo saltuario e irregolare.
Nella nota conclusiva del romanzo, lei dichiara che non conosce la misura di quanto subisca la fascinazione del male. Che cosa intende?
Spesso per perbenismo sottolineo la parte moralistica dei miei scritti, che pure esiste. Ma l’identificazione con forze distruttive è per me irresistibile; come se affidassi ad altri la vendetta per un male che mi è stato fatto, nemmeno io so quando e come. Probabilmente sono vittima di un gioco di proiezioni, è mia la malvagità che mi attrae negli altri. Se questo mi dà un po’ di lucidità nel contrastare facili consolazioni, ben venga.
In una recente intervista al Corsera ha dichiarato che la sua produzione letteraria è sempre stata dedita a una incessante ricerca del desiderio. Spesso il desiderio è associato all’erotismo, verso quale forma di desiderio è orientata la sua ricerca?
All’inizio, naturalmente, era un desiderio erotico anomalo; e non mi riferisco solo all’omosessualità ma a al desiderio per un tipo di corpi decisamente fuori dalla norma, in genere considerati poco attraenti se non ridicoli. Mi sono sempre sentito diverso dai diversi. Più tardi mi sono interessato al desiderio collettivo per le merci pubblicizzate come corpi, e viceversa. Alla fine credo di starmi avvicinando al desiderio puro, come voglia di Altrove.
Il desiderio come ‘mancanza’ è un aspetto dominante della nostra contemporaneità e già del Novecento. È un pungolo nella carne o anche uno stimolo?
Negli ultimi due secoli l’Occidente ha utilizzato il desiderio come instrumentum regni: concedendo all’individuo soddisfazioni sempre più rapide e vistose, ha dirottato in questa direzione le pulsioni antagoniste. Tu compra e possiedi, all’organizzazione della realtà ci pensiamo noi. Ci si è fidati dell’astuzia della ragione, per cui l’individuo perseguendo i suoi desideri particolari avrebbe ottenuto il progresso collettivo; si è saliti su un tapis roulant uniformemente accelerato che non si può più fermare e da cui non si può scendere se non a prezzo dell’irrilevanza.
La finanza e il lessico finanziario nel suo romanzo si mescolano al lessico relazionale, dei rapporti umani. È così perché c’è sempre un rapporto di scambio, di strumentalizzazione reciproca fra gli individui?
Non sempre né necessariamente; accade quando le relazioni tra gli individui sono interpretate come scambi commerciali, dove il problema è sempre chi ci rimette e chi ci guadagna, se un certo rapporto conviene o non conviene. A questa piega delle cose ha contribuito certamente l’estetizzazione della cronaca, un’idea stereotipa di bellezza concepita come capitale economico. La libertà dalle convenzioni sociali (che regolavano istituzionalmente il rapporto tra economia e sentimenti) è stata una falsa liberazione perché ha reso interno quel che era esteriore: siamo ormai i contabili sentimentali di noi stessi.
Lei scrive: “Il lusso sottrae al mondo, ma non completamente. Quanto ce ne vuole per surrogare l’assoluto?”
Il lusso è per l’appunto un surrogato e come tutti i surrogati tende ad abolire ciò che surroga. Per chi ha il piacere di sperimentarlo, supplisce a un assoluto che non si presenta più in forme credibili; se addobbiamo la statua della Madonna con catene d’oro, vuol dire che il vecchio idolo di legno non fa più i miracoli da un bel pezzo.
È di questi giorni la notizia della cancelliera tedesca Merkel, che in un talk show tv tedesco è inciampata con imbarazzo su una domanda che riguardava le adozioni dei bambini da parte di coppie gay. Pare abbia detto: “non sono favorevole all’equiparazione completa”. Lei che ne pensa di questo concetto di famiglia?
La famiglia tradizionale è ormai fottuta, lo sviluppo tardo-consumista l’ha messa fuori gioco. Non basta proibire il matrimonio o le adozioni ai gay per rimetterla insieme. Quella dei cattolici è una resistenza di retroguardia, destinata a essere sconfitta. Famiglie nuove si annunciano, che dovranno scontare i medesimi inferni che ha scontato a suo tempo la famiglia borghese, allargata o nucleare che fosse.
Il suo protagonista è un ex obeso. Quanto la bulimia alimentare di cui soffre Tommaso è anche una bulimia esistenziale?
Ovviamente la bulimia del protagonista è una metafora, nemmeno troppo originale. “Divorare tutto” è uno degli emblemi sotto cui si è disegnata la nostra idea di sviluppo. In una società affluente il cibo è per eccellenza il soggetto che, quando lo desideri, non può dirti di no.
La crisi economica internazionale è il sintomo anche di una crisi di valori etici?
È il risultato di molti fattori, soprattutto geopolitici: è il segno di un riequilibrio tra parti del mondo che si trovano ancora fortemente squilibrate. Paradossalmente, è l’affermazione involontaria di un valore di giustizia. Semmai è la forma in cui si presenta questa crisi ad essere figlia di una crisi dell’etica: il suo tradursi in una guerra di numeri, di curve statistiche, di prescrizioni astratte che non tengono minimamente conto delle vite concrete e non sanno parlare francamente ai cittadini, che sono intesi invece come sudditi e gregge.
La possessione affannosa della bellezza e della sessualità, della magrezza, dei soldi (come accade in quest’ultimo romanzo), è una sorta di riscatto sociale? E di quale riscatto ha bisogno l’individuo oggi?
Si tratta di cose diverse: un obeso che si opera insegue un riscatto personale, prima ancora che sociale, rivendica il diritto a essere desiderato. (O ad apparire desiderabile, che nell’universo del consumo è quasi la stessa cosa). Per i bodybuilders (come per le anoressiche) più che di riscatto parlerei di una ricerca malata di perfezione. I soldi riscattano solo chi prima non li aveva, ma di solito vanno a chi li ha già: per loro sono la conferma di un privilegio. Non riesco a pensare a un riscatto universale.
I protagonisti del romanzo sono pervasi dall'amoralità (e non dall'immoralità). Forse questa nasce da tanti anni di cultura italiana alla deriva grazie anche a certa politica. È così?
Credo che causa ed effetto siano in questo caso facilmente rovesciabili. È vero che molta politica ha sdoganato il menefreghismo pro domo mea, ma è anche vero che grazie all'amoralità diffusa questa politica ha potuto affermarsi. La distinzione tra bene e male è ancora più confusa in profondità che in superficie.
*Pubblicato su Micromega per gentile concessione dell'autrice.