Spiegatelo come volete – pura insensatezza accidentale o destino, o karma familiare – ma fu uno splendore troppo breve, quello di Jeff Buckley. Un solo album, a rigore. Quello di esordio che uscì nel 1994. Quando lui, ormai, aveva già poco meno di 28 anni. A dimostrazione del fatto che non era quella la sua intenzione iniziale, la sua ambizione irrinunciabile, la sua ragione di vita.
Per chi lo ascolti senza sapere tutta la storia può sembrare incredibile. Hai quella voce magnifica e non la metti al centro della tua Città Ideale. Non ne fai la prua con cui fendere le acque del conscio e dell’inconscio. Quando innumerevoli cantantucoli, invece, non si fanno scrupolo alcuno di invadere la scena e di usurpare il trono. O i feudi di contorno. Riducendo la missione a mestiere. L’arte a intrattenimento. La folgore che squarcia le tenebre a lucette rassicuranti da american bar.
Hai il precedente di tuo padre che è stato un artista geniale. Un innovatore persino troppo avanti rispetto alla sua epoca (gli anni gloriosi del Rock Impavido, a cavallo tra la metà dei Sessanta e i primi Settanta) che pure correva a perdifiato come se avesse intuito che quella libertà smisurata non poteva durare all’infinito.
L’esempio artistico, purtroppo, si è impastato alle vicende familiari e il miscuglio è fermentato nella maniera peggiore. Un padre che ti abbandona già prima della nascita è meglio che te lo dimentichi in tutti i sensi. Lui ha frapposto le distanze del mondo reale: e per renderle incolmabili basta aggiungere un po’ di miglia, nemmeno poi tante. Tu dovresti aggiungerci gli oceani invalicabili di una definitiva estraneità. Ma per prosciugarli basta un momento di distrazione. Il cervello abbassa un attimo la guardia e il cuore lo disarma: è comunque tuo padre e nessuno può cambiare il fatto che quel posto gli appartiene. Per quanto lui non lo voglia occupare. Non lo voglia onorare.
Jeff Buckley, così, divenne prima musicista e solo dopo, molto dopo, anche cantante. Come se temesse di varcare i confini tra la perizia dello strumentista, per quanto abile, e le rivelazioni dirompenti della voce che libera sé stessa, disintegrando (per fortuna) ogni residuo di pudore. E di cautela.
La sua discografia ufficiale gli accredita tre album di studio e alcuni live. Ma ufficiale, come spesso accade, fa rima con commerciale. E di quei tre album, in realtà, l’unico che gli può essere attribuito in modo ineccepibile è appunto il primo: “Grace”, del 1994. Il secondo, “Sketches for My Sweetheart the Drunk”, uscì postumo nel 1998. E quanto al terzo, “You and I” del 2016, è il tipico saccheggio degli archivi che rovista tra gli appunti e li spaccia per documenti. Un mazzetto di cover e pochissimo altro. Al buon cuore degli appassionati sinceri, per cui ogni goccia d’acqua è un ristoro nel deserto del lutto e del rimpianto. Alla cattiva coscienza di chi quelle gocce le imbottiglia al solo scopo di venderle e di afferrare un’ultima bracciata di dollari.
E dunque è solo a “Grace”, che dobbiamo e possiamo rivolgerci per trovare Jeff Buckley così come egli stesso si volle rappresentare su disco. Sapendo già da prima, o scoprendolo dopo pochi istanti o ancora più avanti, che la parola chiave è introspezione. L’oscurità profonda della notte che fa risaltare anche le luci più piccole. L’ora più fredda che precede il sorgere del sole, ma che allo stesso tempo le si avvicina senza scampo. Ciò che è ancora irrisolto ma che lascia presagire una consapevolezza alla quale andare incontro.
È assai probabile che “Hallelujah”, l’insuperata riproposizione/reinvenzione di un brano di Leonard Cohen che nell’originale ristagnava in cadenze troppo costanti, vi sia già familiare. C’è da sperare che non lo sia divenuta così tanto da renderla risaputa. C’è da augurarsi che ogni altro brano vi diventi altrettanto caro. Sono parti della medesima costellazione. Sono tracce del medesimo andare, libero come un vagabondaggio e significativo come un’esplorazione.
Jeff Buckley era in cammino. Viene voglia di seguirlo, e di raggiungerlo, per essergli compagni di strada. E per tenerlo lontano dall’epilogo, tragico, della sua morte terribilmente prematura che avvenne il 29 maggio del 1997 per un bagno azzardato e fatale nelle acque infide del Wolf River. In quel di Memphis, Tennessee.
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