Le grandi correnti della letteratura europea degli ultimi due secoli mostrano, tutte, un progressivo processo di raffinamento della sensibilità, nel passaggio che dall’epoca moderna conduce a quella contemporanea. In Italia, questo fenomeno inizia con Leopardi e arriva a Montale e Ungaretti, passando per Pirandello e Svevo.
In Francia, nomi come quelli di Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e Mallarmé danno inizio ad una musica sconosciuta nella loro lingua e saranno Proust e, in seguito, Sartre, Camus e Céline a condurre la letteratura francese alla sua definitiva maturazione. In lingua inglese, basta fare i nomi di Joyce, T. S. Eliot, E. Pound, W. H. Auden per rilevare un processo di analoga portata e significato. In Germania, il nome di Thomas Mann è, forse, sufficiente a rappresentare le inquietudini e il culto della forma di un’epoca intera.
Ma se c’è una tradizione letteraria che esemplifica, di gran lunga, il meglio che la letteratura del Novecento ha rappresentato, essa è quella legata alla Mitteleuropa. Non solo per manifestazioni di prima grandezza come Kafka e Rilke. Tutti i grandi esponenti della tradizione asburgica ci mettono di fronte ad un’esperienza del mondo e ad una capacità espressiva di indubbio valore.
A cominciare dal talento satirico di Karl Kraus per arrivare alla sapienza stilistica di Hugo von Hofmannsthal. Proseguendo con le intuizioni psicoanalitiche e il talento narrativo di Arthur Schnitzler. Senza sottovalutare le folgorazioni aforistiche di Peter Altenberg e le meditazioni sull’architettura di Adolf Loos. La grande sapienza storica di Stefan Zweig.
O il caso di Robert Musil che, con “L’uomo senza qualità” (1930-1933), toccò uno dei vertici del romanzo novecentesco. Senza dimenticare la lucidità teoretica di un Freud o di un Wittgenstein, destinati a scrivere pagine cruciali della cultura teorica dell’Europa del secolo scorso. La poliedricità di Elias Canetti, che sapeva spaziare dal romanzo al grande trattato, dall’autobiografia all’aforisma al saggio.
Fino alle tardive zampate di Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann, ultimi esponenti di un mondo destinato a tramontare. Nonché al ramo triestino della grande famiglia mitteleuropea, a nomi come quelli di Italo Svevo, Roberto Bazlen e Claudio Magris. Anche un romanzo come “Lo stendardo” (1934, ed. it. Adelphi) di Lernet-Holenia – pupillo di Rainer Maria Rilke – merita di essere ricordato, come testimonianza di un’epoca letteraria di prima grandezza.
In questo contesto, il nome di un narratore come Joseph Roth (1894-1939), non appartiene certo al novero delle manifestazioni secondarie della cultura mitteleuropea. Fragile e ultra-sensibile sul piano personale – come molti dei suoi grandi contemporanei – Roth ha il dono di scrutare nel volto della crisi contemporanea, con dolcezza e serenità.
La sua opera ha due grandi filoni: il crollo dell’Impero asburgico, fenomeno capitale che coinvolgerà tutti i grandi letterati e artisti di quegli anni, da una parte; dall’altra la fine dell’ebraismo orientale, che la furia
omicida di Hitler spazzerà via definitivamente. A rappresentare queste due correnti cruciali della sua opera, è possibile menzionare “La Cripta dei Cappuccini” (1938, ed. it. Adelphi), per quello che riguarda la fine dell’Impero di Francesco Giuseppe.
Viceversa, per ciò che concerne la scomparsa dell’ebraismo orientale, il titolo di riferimento è “Giobbe. Romanzo di un uomo semplice” (1930, ed. it. Adelphi). Vale la pena soffermarsi, brevemente, su quest’ultima opera.
Appare chiaro che si tratta di un ripensamento, in chiave narrativa, del “Libro di Giobbe” dell’Antico
Testamento. In italiano, tra le varie edizioni, l’opera è stata tradotta e commentata da Guido Ceronetti per
Adelphi. Con i pregi e i difetti che i lavori di questo studioso e grande intellettuale comportano. Menzionerei, tra i pregi, la straordinaria potenza espressiva che il Ceronetti traduttore dell’Antico Testamento – sue sono, per lo stesso editore, anche le traduzioni commentate di “Il Libro del profeta Isaia”, “Il Cantico dei Cantici”, “Il Libro dei Salmi”, “Qohélet” – è in grado di restituire al testo biblico.
Tra i difetti, è possibile rilevare un’eccessiva libertà, rispetto ai normali criteri della ricerca erudita.
Un buon esempio del metodo filologico-storico di Ceronetti è il volume “Come un talismano” (Adelphi 1986), in cui questa singolare figura di studioso-filologo-mistico si confronta con i testi poetici per lui importanti. Gioverà ricordare che il titolo proviene da un verso di Montale.
Il biblico “Libro di Giobbe” ha, al suo centro, il problema del male e lo affronta con una radicalità, tale da far impallidire molta della filosofia successiva – è particolarmente significativa, a questo proposito, la voce Giobbe che Giuseppe Ricciotti e Alfredo Vitti hanno scritto, nel 1933, per l’Enciclopedia Italiana Treccani (disponibile su internet). Ossia proprio in quel 1933, in cui Hitler salì al potere e, per gli ebrei europei, si stava scatenando la fine del mondo.
Analogamente si muove il romanzo di Roth. Il Giobbe, uomo semplice, di Roth è un maestro elementare che vive piamente e con modestia, per il bene della sua famiglia. Come il Giobbe biblico, anche Mendel Singer, questo il nome del protagonista, perde tutto. In primo luogo, la moglie e i figli maggiori. Dunque, di fronte all’inesorabilità della sofferenza e del dolore, il Giobbe contemporaneo di Roth è messo alle corde, con le spalle al muro.
Come ciascuno di noi, di fronte alla disperazione, inizia a dubitare della sua fede, del ruolo salvifico di Dio, non prega più. In pagine di alta tensione narrativa, risuona l’allocuzione che il Giobbe contemporaneo rivolge a sé stesso: “è finita, finita, finita per Mendel Singer”.
Poi, però, accade qualcosa di importante, un miracolo. Il figlio più piccolo di Mendel, che aveva evidenti
problemi di sviluppo, di cui non si sapeva se fosse vivo o morto, trova il padre e lo salva. Non solo sta bene ed è in salute, ma è diventato un grande direttore d’orchestra.
Un altro popolo, oltre a quello ebraico, amico della Sapienza, come i Greci, espresse, nell’epoca arcaica della sua cultura, il rapporto con il dolore attraverso l’espressione “pathei mathos”, “dal dolore nasce saggezza, consapevolezza”.
Peter Cameron, romanziere americano contemporaneo, ha espresso questo concetto attraverso il titolo di uno dei suoi romanzi: “Un giorno questo dolore ti sarà utile” (2007, ed. it. Adelphi). Ecco, al di là della fede, della possibilità del miracolo nelle nostre vite, della grande restituzione che il destino non sempre concede, resta la natura redentrice della sofferenza. La possibilità di crescita che essa ci mette di fronte. Non è, in fondo, così poco…
Daniele Lorusso
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