L’ evangelista Giovanni (20, 19-31), in questo brano simile a Luca 24 (i discepoli di Emmaus), riprende alcuni degli elementi lucani e li reinterpreta con il suo stile: la difficoltà di credere alla risurrezione viene ancora una volta personalizzata e ci si concentra su una figura soltanto, quella di Tommaso. In particolare però la prospettiva giovannea sottolinea la grandezza di questo giorno, il primo dopo il sabato: è la domenica, Pasqua del Signore, nuovo giorno chiamato a sostituire il sabato giudaico.
E’ così importante che è in questo momento che viene donato lo Spirito (v. 22): non serve neanche attendere Pentecoste. Tutta la vita di Gesù si è svolta in vista dell’ora, quella definita dal Padre. L’ora è quella della gloria, il punto più alto della storia, il fine o meglio il perno intorno al quale la storia umana gira.
E’ in quel momento che la Scrittura si è compiuta, è lì che Dio ha dimostrato in maniera perfetta che il suo amore per l’umanità è eterno, per sempre e invincibile. E’ sulla croce che Dio Padre mostra il suo grande amore perché lì ama il mondo a tal punto da dare suo Figlio, l’Unigenito, la cosa più preziosa che possiede, per salvarci. In questo senso, Venerdì santo, Pasqua, Ascensione, Pentecoste sono tutti eventi uniti nell’unica vicenda di morte e risurrezione del Figlio dell’Uomo.
Il dono dello Spirito infatti era già stato consegnato sulla croce, dove si dice che Gesù “consegnò lo Spirito”, nel momento della sua morte (19, 30). Ora queste grandi promesse si sono realizzate ed ecco che comincia nella storia una nuova fase, quella della chiesa, che è chiamata a testimoniare una speranza che non è solo al futuro ma ha una radice storica, l’evento appunto di Gesù Cristo, compimento dell’amore del Padre.
Ecco perché questa nuova comunità che nasce viene incaricata di portare il dono del perdono (v. 23): non si tratta di una comunità perfetta in sé stessa, per le proprie forze, ma proprio perché rappresenta l’amore di Dio in forma piena non può non trasmettere il grande messaggio di pace (vv. 19.21) che Dio ha per l’umanità. Questa novità è affidata alla sua chiesa: la fase del Gesù storico, con la parola e la sua presenza in figura d’uomo, è finita. D’altronde, lui stesso aveva parlato di un ritorno al Padre, per poi tornare in mezzo ai suoi, ma appunto in forma nuova.
Questo passaggio dalla testimonianza diretta di Gesù a quella della chiesa non è però indolore: ecco perché presentare il personaggio di Tommaso. Costui è infatti a cavallo delle due fasi: da apostolo ha conosciuto il Gesù storico e adesso si oppone a una testimonianza che sia solo dei suoi discepoli. E’ un paradosso che il primo annuncio della risurrezione non funzioni neppure con un apostolo. In questo senso, Tommaso è davvero nostro gemello, “chiamato Didimo” (v. 24), perché anche noi lettori vorremmo vedere per poter credere: credere sulla base della sola chiesa ci sembra troppo poco!
Il brano però ci presenta Tommaso come l’eccezione che conferma la regola: a lui, apostolo di Gesù, viene concesso di essere come gli altri discepoli che erano presenti nel Cenacolo. Rivelandosi a lui, Gesù stesso conferma la vera regola della fede: beato è colui che crede senza aver bisogno di vedere (v. 29).
Se prima era possibile basare la fede sulle azioni e i gesti di Gesù, ora questa visibilità è venuta meno. Per credere occorrono dei segni, e infatti ne sono stati scritti alcuni che costituiscono il testo evangelico (vv. 30-31). Ma non è moltiplicando i racconti di “segni” che si trasmette maggiormente la fede. I segni servono, ma sono, appunto, solo dei segni, sono un punto di partenza che ciascuno deve superare con la propria decisione di credere.
Questa è la dinamica della fede che non può avere un’altra base che sé stessa: se si fondasse infatti su qualcosa di diverso, non sarebbe più neanche fede.
In conclusione, la beatitudine non vuole condannare a una fede cieca: anzi, per chi crede, i segni da veder poi non mancano. Ma si vuole ricordare che la fede deve avere un primato, non è condizionata dal vedere. Così per noi cristiani: per chi pretende di vedere Gesù per poter credere in lui, le vie della fede sono già chiuse per la sua precomprensione (pregiudizio). Per chi decide di fidarsi della testimonianza della chiesa, in realtà non mancheranno i segni visibili della presenza del Signore in mezzo ai suoi discepoli.
La “fatica” a credere di Tommaso nasce dal dramma che ha vissuto e del quale non riesce a rendersi ragione. Gesù, il Maestro, catturato e condannato, flagellato e inchiodato alla croce, morto dopo una breve agonia e deposto in un sepolcro. Tutto questo non può essere rimpiazzato da una gioia che sembra quasi cancellare il dramma che è appena accaduto.
Se dunque veramente il Risorto è colui che è stato crocifisso, se è venuto il momento di terminare il lutto e di rallegrarsi, allora egli vuole toccare con mano i segni di quella Passione che l’ha fatto soffrire in modo indicibile. E’ questo il tornante decisivo per giungere alla fede pasquale: accettare che la passione e la morte siano state il passaggio (Pasqua) doloroso per giungere alla gloria. Da lui, Tommaso, nasce a questo punto una chiara professione di fede: “Mio Signore e mio Dio” (v. 28).
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Flori, 2024; Laurita, 2024.
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