Il brano evangelico (Mc. 8, 27-35) che ascolteremo domenica prossima occupa un posto centrale nel Vangelo di Marco, perché fa da cerniera tra le due sue grandi parti: la missione in Galilea (la prima parte) e a Gerusalemme (la seconda parte). Nella prima parte Gesù conserva il segreto sulla sua identità messianica, nella seconda parte Gesù parla apertamente ai suoi discepoli della sua passione.
La confessione messianica
Per la prima volta Gesù è riconosciuto come Messia, e ciò in prossimità di una città pagana. Questa volta, il problema della sua identità non è sollevato dalla gente o dai discepoli, ma da Gesù stesso. Alla prima domanda (“Chi dice la gente che io sia?” v. 27) i discepoli non hanno difficoltà a rispondere. La folla si è già formata un giudizio su Gesù. La sua condotta eccezionale fa pensare a Giovanni Battista risorto, ad Elia atteso come il precursore degli ultimi tempi, ad uno dei profeti antichi.
Gesù non discute questi giudizi della folla. Ma ora si rivolge ai discepoli e chiede loro chi pensino che egli sia. Quello che Pietro afferma a nome di tutti i dodici (“Tu sei il Cristo” v. 29) supera di molto l’opinione delle folle: egli riceve la rivelazione della dignità messianica di Gesù. La confessione di Pietro è giusta e coincide con quella della Chiesa per la quale Marco redige il suo Vangelo. La fede di Pietro esprime bene la convinzione fondamentale del cristianesimo primitivo: Gesù di Nazareth può essere compreso unicamente alla luce della fede che vede in quest’uomo il Messia o il Cristo. Noi siamo talmente abituati a ripeterlo che non ci rendiamo pienamente conto del significato del termine “Cristo”.
La proibizione di parlare e il primo annuncio della passione (vv. 30-33)
Gesù vieta ai discepoli di rivelare ad altri che è il Messia: “Ed egli ordinò loro severamente di non parlare con nessuno di lui” (v. 30). La consegna del silenzio è in armonia col tema del segreto messianico, tema centrale nel Vangelo di Marco. L’evangelista sa perfettamente che Gesù è il Messia, come dimostra scrivendo il suo Vangelo. Qui, il divieto riguarda esplicitamente la sua messianicità: e afferma il motivo per il quale essa deve essere tenuta segreta: per la divina necessità della Passione! Prima che la gloria messianica di Gesù sia completamente manifestata, è necessario che abbia luogo la sua Passione, voluta da Dio: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi ed essere ucciso e risorgere dopo tre giorni” (v. 31)
Il Messia non è solo un Re potente, ma anche un Figlio di uomo umile e sofferente. Gesù si mescola agli uomini prendendo su di sé gli aspetti più oscuri dell’esistenza umana: l’abbandono, la sofferenza, l’umiliazione ingiusta e anche la morte, suprema avversaria dell’uomo. Ma gli apostoli non sono ancora convinti che la dignità di Cristo comporti anche la sofferenza e l’umiliazione: ecco perché non possono ancora rivelare la messianicità di Gesù. potranno farlo solo dopo la risurrezione, quando la Passione sarà compiuta e confermata da Dio.
Pietro reagisce agli annunci della Passione facendosi portavoce dei discepoli: “E Pietro lo prese in disparte e cominciò a rimproverarlo” (v. 32). Prende Gesù in disparte come se volesse metterlo sotto la sua protezione. Con un pizzico di superiorità tratta il maestro come se fosse il più debole, e vuole togliergli dalla testa le idee insensate che gli frullano in mente a riguardo della Passione. Ma Gesù si rivolge personalmente ai discepoli e, nello stesso tempo, ristabilisce la situazione: “Ma egli si voltò, vide i suoi discepoli, sgridò Pietro e dice: Và dietro di me, Satana, poiché tu non pensi alle cose divine, ma a quelle umane” (v. 33).
Non è il Maestro che deve seguire il discepolo, ma il discepolo che deve seguire il Maestro. Gesù non accetta alcun compromesso. Se i discepoli non vogliono seguirlo fino alla croce, gli rimane una cosa sola da fare: mandarli via. La reazione decisa di Gesù sottolinea la serietà della divergenza di opinione. La Passione di Gesù è voluta da Dio: tentare di distoglierlo da essa significa incitarlo alla disobbedienza verso la volontà di Dio, norma unica della sua condotta. Un simile incitamento può essere solo opera di Satana, come ha già fatto all’inizio della vita pubblica di Gesù (Mc. 1, 12-13). Inoltre, i discepoli dubitano forse che, se seguono Gesù, li attende il suo stesso destino: anche questo li scandalizza.
Le affermazioni sulle condizioni richieste per seguire Gesù (vv. 34-35)
Chi vuol diventare discepolo di Cristo deve rassomigliargli: “Se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi segua!” (v. 34). Durante la vita terrena, il Cristo che professiamo non si è limitato a manifestarsi come un essere celeste di potenza e di gloria, ma anche come qualcuno che, coscientemente, ha preso su di sé la Passione, secondo la volontà di Dio. Perciò il cristiano non può fuggire la sofferenza legata alla sua testimonianza, rinnegando così la sua condizione di discepolo di Cristo.
L’esistenza cristiana partecipa al paradosso della persona di Cristo, il quale ha raggiunto la gloria messianica solo passando attraverso la passione e la morte, volute da Dio. Solo la più profonda umiliazione conosciuta dalla sua esistenza umana ha reso veramente manifesta la grandezza della sua filiazione divina. Chiunque pretende di portare il nome di “cristiano” deve vivere il paradosso cristiano: salvare la propria vita significa perderla; perderla per Cristo significa salvarla.
Umanamente parlando, le parole di Gesù possono sembrarci “umilianti e mortificanti” per la nostra vita, il nostro benessere, la propria affermazione e realizzazione umana. E’ vero se le tiriamo fuori e le isoliamo dal loro contesto: ciò che spinge Gesù a portare la sua croce è solo l’amore filiale verso il Padre, è solo il dono supremo della sua vita consumata dall’amore che ha per i suoi amici: “Non c’è un amore più grande di chi dà la vita per le persone che ama!” (Gv. 15, 13). In tal modo, tutto cambia: è l’amore che muove il mondo e gli esseri umani, perché Dio è Amore!
Bibliografia consultata: Denaux, 1969.
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