I vini e i prodotti alimentari della provincia di Viterbo: l’acquacotta e le bistecche di razza maremmana, la pignataccia, la sbroscia e il coregone, lo spezzatino di cinghiale, nocciole, funghi, formaggi pecorini e l’olio extravergine di Canino.
Come tutte le Regioni d’Italia anche il Lazio ha i suoi ottimi prodotti tipici, le sue eccellenze gastronomiche e i suoi vini. Anche se è una regione con identità differenti, acquisite dalle regioni confinanti e deve la sua caratteristica principale alla presenza di Roma, con tutta la sua storia e la sua fortissima impronta identitaria, nel tempo sta assumendo una sua precisa immagine gastronomica ed enologica, proprio a partire dalla Capitale, un vero polo attrattivo sia culturale che economico e gastronomico.
Tuscia, Sabina, Agro Pontino, Ciociaria, Castelli Romani e, naturalmente, Roma. Non è facile, come dicevo, delineare le usanze e i costumi del Lazio, così come tracciare dei confini netti in grado di circoscrivere e distinguere una cultura gastronomica dalle altre. Anche a tavola la tradizione regionale si fa intricata e deve tener conto di luoghi che, seppur poco distanti fra loro, hanno alle spalle vissuti storici completamente diversi. Basti pensare alle profonde differenze tra la Ciociaria e la Tuscia, la prima in odore di Campania, addirittura con un prodotto DOP come la Mozzarella di Bufala Campana, tipicamente del Casertano e del Salernitano, ma che si produce ugualmente nelle province di Latina e Frosinone. Per descrivere la gastronomia laziale vorrei muovermi prendendo in considerazione le varie province, lasciando Roma per ultima, per dare maggiore risonanza e visibilità a quei prodotti e a quelle realtà, che ne hanno avuta meno nella storia stessa del Lazio, spesso offuscata dalla grandezza di Roma.
La Tuscia originariamente era più vasta dell’attuale provincia viterbese. È un territorio ricco di storia, natura e cultura gastronomica. Geograficamente farebbe parte integrante dell’Etruria e ha molte cose in comune con la Maremma toscana e l’Amiata. Una terra racchiusa tra monti e laghi, solcata dalla via Francigena e dal Tevere, come ce la racconta Dante Alighieri nel canto XII e XIV dell’Inferno.
Ricopre una piccola porzione del centro Italia, ma gode di una grande varietà geografica. Il Mar Tirreno da un lato e le alture, i laghi e i borghi storici dall’altro, al confine con l’Umbria. Tralascio la storia della regione che è abbastanza nota e verificabile facilmente, per entrare subito nel tema.
La gastronomia della Tuscia attinge a piene mani dalla tradizione contadina, non ben definita, un po’toscana un po’ laziale, ma con sapori forti e decisi. La Tuscia è rinomata per le sue carni, i legumi, i formaggi e le verdure autoctone. Una tradizione culinaria povera, che vive dei prodotti della terra, della campagna, delle coltivazioni, senza però disdegnare prodotti sia di mare sia acqua dolce, con i grandi laghi vulcanici di Bolsena e Vico (ricchi di ulivi e vigne, tanti gli oli e i vini prodotti in zona) arricchiscono l’entroterra viterbese. Originariamente questa era una terra di pastori e allevatori di bovini. Per questo i suoi principali prodotti sono materie prime semplici o non tanto pregiate. Come spesso è accaduto in Italia, sono le cucine tradizionali regionali che hanno alimentato una gastronomia di qualità attraverso il lavoro preziosi degli chef, dove nuove tecniche e tecnologie hanno potuto valorizzare e reinterpretare i piatti di una volta.
Cerchiamo sempre di risalire alle origini di un piatto e non è certo che possiamo riuscirci. La cosa è resa complicata anche dalle differenze culturali che in Italia segnano luoghi anche vicini tra loro, per cui, in pochi chilometri cambiano i termini, cambia l’idioma e cambiano i piatti, sia nel nome che nella ricetta. Pur capendo che si tratta della stessa ricetta e dello stesso idioma, ma con sfumature diverse. Prendiamo uno dei piatti rappresentativi della Maremma tutta, quella che va da Roma a Livorno: l‘acqua cotta. Una zuppa di verdure che ha la caratteristica di risultare diversa in ogni borgo tra Tarquinia, Grosseto e l’Amiata.
Guai a mettere in discussione le radici del piatto, potreste imbattervi in una querelle tra storia e gastronomia dalla quale difficilmente ne uscirete con le idee chiare. La gente del posto, gelosa custode di ricette e antiche preparazioni, è particolarmente legata alle materie prime del proprio territorio. Per ognuno il piatto del proprio borgo è ovviamente il migliore.
Quando i mandriani della bassa Toscana, ma diciamo pure Maremma e dell’alto Lazio cucinavano all’aperto, nel pentolone dove bolliva l’acqua, gettavano le verdure del posto. Erbe di campo come potevano essere cicoria e borragine, ma anche patate, cipolle, aglio, verza, cavoli e cosi via. Il tutto condito con olio extravergine di oliva di Canino, ma anche di altre zone se si cucinava in Toscana e infine l’aggiunta del pane raffermo.
Fette dure di ieri o molti ieri l’altro, per non doverle buttare via. Chi ce l’aveva metteva anche il cavolo nero (che però è più da ribollita fiorentina) e c’era chi ci aggiungeva l’uovo sodo o appena affrittellato o bollito nel pentolone. Già così era più ricca. Invece dell’uovo di gallina c’era chi metteva quello delle quaglie, trovate nei campi. Sale e pepe (una spezia più cara) e c’era chi vi aggiungeva un bicchiere di vino per apportare più proteine e sapore.
Oggi vi sono enormi differenze nelle varie pietanze che si chiamano acqua cotta a seconda che si facciano a Montalto di Castro o a Capalbio, a Pitigliano o a Tuscania.
Borragine, maggiorana, cicoria o mentuccia, a seconda della stagionalità e della disponibilità di ognuna di esse, erano le erbe maggiormente in uso in questa preparazione. Abbondanza, quindi, ma anche sapore deciso per una ricetta che, dicono i locali, “il pane spreca e la trippa abbotta” (che recupera il pane raffermo e riempie la pancia). Un piatto insomma della tradizione poverissima e popolare divenuto proposta, idea per un piatto gourmet.
Come abbinamento mettiamo un vino Grechetto bianco viterbese, secco, vellutato, fruttato con un retrogusto amarognolo che si combina con il sapore delle verdure di campo. Anche se è una zuppa e sulla carta vorrebbe il vino rosso, il suo sapore delicato si sposa bene con vini aromatici bianchi.
Al mattino, prima di portare le vacche maremmane al pascolo, i butteri gettavano in grossi calderoni (detti, per l’appunto, pignatte) i tagli meno pregiati delle carni di maiale o di bovino a disposizione. Coda, muscolo, trippa, guance erano solo alcune delle parti che venivano riposte nella pignatta, bagnate poi con acqua e vino bianco e aromatizzate con erbe selvatiche. Il pentolone veniva quindi adagiato sulla cenere ancora calda e la sera, al ritorno dal pascolo, si ritrovavano una sorta di bollito pronto per essere consumato.
La pignattaccia è una pietanza ancora diffusa tra la popolazione di Viterbo, consumata in particolar modo durante la festa patronale di Santa Rosa (il 3 settembre). Un piatto indubbiamente grasso e pesante ma serviva così per gente che stava all’aperto tutto il giorno, a cavallo, con qualsiasi temperatura. Inutile dire che si usava tutto l’animale, non solo carni scelte, anzi, quelle scelte qualcuno le aveva già selezionate e portate sul tavolo dei signori.
Il pesce “principe” della provincia è il coregone, una specie non autoctona del Lago di Bolsena ma che si è ambientato benissimo. Da oltre un secolo è il piatto forte dei ristoranti locali. Lo chiamano “spigola di lago” e rappresenta circa il 50% delle specie che si pescano qui. Un prodotto ad alta digeribilità, con una carne bianca molto pulita e ricca di Omega 3 e Omega 9, al punto che molti pediatri lo inseriscono nelle diete. Il coregone si presta alle più svariate ricette ma probabilmente la sbroscia e il timballo sono le preparazioni più azzeccate.
La sbroscia o anche acqua cotta dei pescatori, nasce dall’usanza dei pescatori di buttare tranci di pesce fresco nel calderone. Questi piatti miscuglio sono delle opere d’arti popolari.
Tinche, lucci e anguille sono alcuni dei protagonisti della ricetta, che prevede la loro cottura nella pignatta assieme a sale, olio, cipolla, aglio, peperoncino, mentuccia e, secondo le varianti, anche basilico, prezzemolo, pomodoro e patate.
Attorno alle pendici del lago troviamo tanti ulivi e vigneti del vitigno Est!Est!Est! di Montefiascone e oli monovarietali di leccino e caninese. Nell’area collinare grandi quantità di nocciole, castagne e funghi.
Abbiniamoci un Aleatico, autoctono, coi profumi di agrumi e fiori bianchi e molta mineralità nascendo su un terreno vulcanico.
Una pasta simile a delle fettuccine molto sottili, è uno dei piatti simboli della zona.
Nasce nel borgo di Canepina, un paesino di poco più di 3000 abitanti, con un’identità gastronomica ben consolidata. Forse la prima pasta all’uovo di questo territorio. Solo farina e uova. Unici ingredienti del fieno canepinese. Senza acqua e con un uovo ogni 100 grammi di farina. Viene tagliata a mano, con una finezza pari solo ai capelli d’angelo. La si usava per i banchetti e i matrimoni, col ragù di maiale o di pollo, che erano sempre gli animali presenti nell’aia dei contadini.
Una volta scolata veniva asciugata nei panni di canapa, come si fa con il “plin piemontese” col panno di lino. Anzi poi il plin si degusta sul panno e non sul piatto. La canapa, che si coltiva nella zona, ha dato il nome al borgo ed è adatta per questo compito perché assorbe più acqua del cotone. La tradizione vuole la pasta insieme al ragù bianco di manzetta, finocchio selvatico e granella di nocciole.
Un piatto strettamente territoriale che di più non si può. La pasta si presta a più declinazioni, ci fanno dei supplì di fieno cacio e pepe ma anche un dessert: una cialda di fieno dolce, cuocendo la pasta senza sale e poi mettendola in forno con lo zucchero di canna, per fare un caramello delicato. Quindi si prepara come un millefoglie con crema chantilly e menta. Se ci abbiniamo un passito di Aleatico è la morte sua ma anche la Canaiola di Marta che se servita fredda, col suo retrogusto amarognolo, abbassa il dolce dello zucchero e della crema.
Contesa come l’acqua cotta tra Maremma e Tuscia c’è anche la panzanella. In sostanza una fetta di pane casareccio bagnata e profumata con uno spicchio d’aglio e unta con l’olio buono dell’anno, poi spremendoci sopra i pomodori rossi belli maturi e saporiti e una spruzzata di sale, pepe e foglie di basilico. Alcune variazioni la vedono condita con tonno, cipolle, pesto all’occorrenza, o vari sottoli come i carciofini e le melanzane tagliate a strisce. In altri termini è un crostone che si presta anche a infinite variazioni. Per esempio con una tagliata di funghi e rosmarino o su una fetta tostata, con una mousse di ricotta e pomodoro saltato al miele e origano come qualche chef ha proposto.
Le pendici del Monte Cimino sono l’habitat di noccioleti e castagneti, lamponi e funghi. Dai pascoli di pecore e capre arriva un latte grasso dal quale si trae il Pecorino Romano Dop. Un prodotto oggi in gran parte sardo ma c’è anche una piccola parte viterbese. Nei caseifici di zona si preparano formaggi a diverse stagionature come primo sale, caciotte e Pecorino dop, con latte vaccino e latti ovini e caprini.
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