La donna adultera perdonata
Il Signore conosce la nostra miseria, quella di ogni uomo, sa che ognuno è radicalmente debitore di fronte a Dio
Il racconto dell’adultera (Gv. 8, 1-11), che dal punto di vista letterario e stilistico è molto vicino al Vangelo di Luca, è stato fatto oggetto di una controversia nei primi secoli del cristianesimo, suscitando più di un interrogativo sull’opportunità della sua lettura durante il culto del Signore. Tuttavia, questo racconto rimane un piccolo gioiello di narrazione evangelica, che potrebbe essere collocato anche altrove, ma che qui dove si trova offre molti agganci e spunti di riflessione.
Il contesto, tra tensione e profezia
Il racconto si inserisce nel contesto della festa ebraica delle Capanne, che si svolgeva nell’area del Tempio di Gerusalemme e dove Gesù si rivela come “acqua viva e luce del mondo”. Questa autorivelazione come il Cristo di Dio si svolge in un clima di disputa sulla sua identità messianica, di pregiudizio sulla sua origine e di crescente violenza nei confronti della sua persona. Gesù, come l’adultera, scampa al giudizio degli uomini. In un clima così carico di tensione simbolica e narrativa, l’episodio dell’adultera rappresenta per noi l’occasione di fissare lo sguardo direttamente sulla persona di Gesù, su quanto egli promette ed è venuto a realizzare.
Tra legalismo e miseria umana
La scena si svolge nel Tempio, dove Gesù è seduto per insegnare a tutto il popolo (v. 2). E’ a questo punto che gli viene condotta una donna sorpresa in adulterio, così da sottoporla al suo giudizio. In realtà, il racconto stesso ci rivela che l’obiettivo di questa iniziativa degli scribi e dei farisei non è la donna, ma Gesù stesso. E’ lui che si vuole mettere alla prova, così da avere motivo di accusarlo: se Gesù rimanderà la donna, sarà evidente la sua inosservanza di quella Legge che egli dice di essere venuto a compiere; se invece la condanna questo andrà a vantaggio della loro visione legalistica e gli procurerà dei guai con la legge di Roma, ma soprattutto sconfesserà la sua misericordia per i peccatori.
Di fronte a questa “via senza uscita”, Gesù compie uno strano gesto: “si chinò e si mise a scrivere con il dito per terra” (v. 6). Il gesto è simbolo della misericordia di Dio, il quale si china su questa nostra miseria, proprio come fa Gesù.
Un Maestro, non un giudice
Il Signore conosce la nostra miseria, quella di ogni uomo, sa che ognuno è radicalmente debitore di fronte a Dio e per questo può pronunciare la sua sentenza con assoluta tranquillità: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (v. 7). I devoti osservanti della Legge sono stati messi all’angolo dalla loro stessa logica: volendo giudicare sulla base del precetto, sono stati a loro volta giudicati, non da Gesù però, ma da quel legalismo che essi stessi sostengono.
La lapidazione, eseguita in gruppo, normalmente prendeva il via dall’iniziativa dei più autorevoli tra i presenti, testimoni del fatto o anziani della comunità. Ma chi di loro può dirsi totalmente puro da ogni peccato? Evidentemente no, come ben sa ogni buon giudeo osservante della Legge. La Legge che giudica l’uomo lo rende incapace di essere totalmente giusto agli occhi di Dio, sempre esposto a una trasgressione possibile e dunque sempre esposto alla condanna.
Gesù è ancora seduto e insegna. Al termine di queste parole però si flette di nuovo e continua a scrivere per terra. Egli è maestro, non giudice, non è venuto a condannare. Con queste semplici parole Gesù ha sciolto le loro trame, vinto il loro orgoglio ma soprattutto offerto loro un’occasione di verità nella libertà.
Una salvezza che ridona dignità
A questo punto rimane soltanto Gesù e la donna là in mezzo. Finalmente soli, verrebbe da dire. Ed effettivamente questo è il momento atteso: cosa dirà Gesù alla donna che ha peccato, che ha trasgredito un così importante comandamento? La donna è in mezzo, ancora esposta al giudizio. Ora Gesù si alza, finalmente è pronto a pronunciare la sentenza. Ma, sorprendentemente, Gesù le si rivolge con una domanda, la interpella, guardandola in volto: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” (v. 10).
Con questa domanda Gesù le restituisce già la sua dignità di persona; la donna ora non è più semplicemente l’oggetto di un giudizio e, addirittura, il pretesto per un inganno. E’ la persona donna, con la sua storia, la sua fragilità e il suo bisogno di essere riconosciuta e vista, come ogni persona. C’è tutto questo nella domanda di Gesù. Nella risposta della donna: “Nessuno, Signore” (v. 11), si fa largo una speranza, un’attesa verso quel Maestro che le sta di fronte con rispetto.
“E Gesù disse: Neanch’io ti condanno; va e d’ora in poi non peccare più” (v. 11). Gesù non è venuto solo a insegnare, è venuto a salvare. Egli non è un semplice profeta, è il Signore che dona la vita, che opera con la potenza creatrice di Dio, il quale fa nuove tutte le cose. Nell’invito di Gesù alla donna, “non peccare più”, è indicata una strada nuova, che ora la donna può finalmente percorrere perché ha incontrato il Signore della vita, che non condanna il peccatore ma lo riporta alla vita.
Gesù è venuto a rivelarci il volto e il cuore di Dio: Dio è il Padre prodigo, sovrabbondante di amore, preveniente e incondizionato nella sua misericordia. Per il Signore, nessuno è irrecuperabile, senza speranza, inchiodato al suo passato, da buttare. In Dio sempre e comunque si può trovare rifugio: la sua casa è sempre aperta. E’ una porta che apre al futuro, alla speranza. Per ognuno di noi c’è una porta aperta, sempre!
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mino, 2022; Marson-Gradzki, 2022.