Il vangelo (Lc. 2, 22-40) e la festa della Santa Famiglia ci danno l’occasione di meditare sulla genitorialità sperimentata da Giuseppe e Maria. Il brano evangelico interpella i credenti su una difficile libertà e gratuità nella crescita, protetta ma rispettosa, del figlio Gesù.
Il vangelo della presentazione al tempio di Gesù è uno splendido racconto di mirabili “coincidenze” di momenti: se da una parte si tratta di adempimenti della “legge” (la purificazione della Madre e la presentazione del Primogenito), dall’altro è l’incontro con il profeta Simeone che aspettava da tempo il Messia di Israele e sale al tempio per il culto “mosso dallo Spirito” (v. 27). Quest’incontro è manifestamente voluto da Dio: per Simeone, perché il Signore rispetta la promessa di colmare le sue attese e mostrargli il volto del Cristo di Dio; per Maria e Giuseppe, perché le parole di Simeone sono un ennesimo piccolo tassello nel mistero di questo Bambino e della sua missione.
“I miei occhi hanno visto la tua salvezza…” (v. 30): questa preghiera del vecchio Simeone è stata così apprezzata dalla comunità cristiana da eleggerla a cantico che chiude, alla fine del giorno, la Liturgia delle ore (Nunc dimittis). Nelle parole di questo anziano uomo giusto che abbraccia il Messia bambino è celebrato il legame tra l’Antica e la Nuova Alleanza: Simeone, “servo” del Signore Dio, si dice ormai pronto ad “andare in pace” (morire), perché le sue attese sono state compiute; la salvezza, che lui pregusta, sarà donata attraverso quel bambino a tutti i popoli (v. 31).
Quel bambino sarà “luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (v. 32), manifestazione universale nella storia dell’azione salvifica di Dio.
A Maria, poi, Simeone aggiunge: “…e anche a te una spada trafiggerà l’anima” (v. 34). Per i due genitori, già sorpresi di quanto il vecchio uomo stesse annunciando del bambino Gesù, le ultime parole sono insieme un lieto annuncio e un macigno incombente: Gesù sarà pietra di inciampo che scandalizzerà (nel senso di “inciampo”) molti, portando la salvezza a quanti crederanno in lui e la “caduta” a quanti lo respingeranno. Anche loro, Maria in particolare, saranno intimamente trafitti dal suo destino, sperimentando l’incomprensione e la paura o il dolore.
Ma un secondo incontro si prepara, con un’altra singolare coincidenza di momenti: nella tipica complementarità dei dittici lucani, stavolta nella duplice veste profetica al maschile e al femminile, ecco che proprio “in quel momento” sopraggiunge anche una donna, Anna, una profetessa. Si tratta, in verità, di una profetessa molto singolare: anziana e con una vita certamente faticosa (praticamente vedova da sempre), non ha ruoli di comando o di guida del popolo e nell’episodio della “presentazione” non interviene direttamente come Simeone.
Proprio la voce di Anna, il tratto più rappresentativo di un profeta, noi non la sentiamo. Anna, quindi, “si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (v. 38): in forma indiretta il suo parlare lega Gesù alla redenzione di Gerusalemme, al riscatto del popolo di Dio da tempo atteso, offrendone un’altra chiave ermeneutica, complementare a quella di Simeone.
L’autenticità della missione di Gesù è dunque attestata da ben due autorevoli testimoni, come richiedeva l’usanza giudaica: Simeone e Anna, guidati dallo Spirito, ci dicono che questo bambino, il Messia, compirà le attese del suo popolo. A Maria e Giuseppe l’arduo compito di discernere, nonostante lo stupore e l’incomprensione, come accompagnare questo figlio straordinario. Simeone e Anna non sono lì per caso: il loro incontro con Gesù è una grazia.
Le loro parole esprimono l’accoglienza e il riconoscimento che i poveri e coloro che hanno fiducia in Dio riservano al Salvatore. C’è gioia e gratitudine nelle parole di Simeone, ma c’è anche il presagio del destino drammatico di questo bambino: davanti a lui ognuno dovrà prendere posizione ed egli conoscerà l’entusiasmo delle folle, ma anche il rifiuto, l’opposizione accanita e violenta.
La festa della santa famiglia di Nazaret ci stimola a riflettere anche sul tema educativo. I figli, infatti, non sono “mera proprietà” dei loro genitori: i figli sono un dono che Dio affida ai genitori. Il gesto che Maria e Giuseppe vanno a compiere al tempio di Gerusalemme costituisce un riconoscimento esplicito del dono che hanno ricevuto da Dio. Gesù è il loro “figlio primogenito” ed essi ringraziano Dio per il dono di questo figlio e compiono un rito “di riscatto”: è questo il significato dell’offerta che hanno portato (una coppia di tortore o due giovani colombi), offerta che rivela la loro condizione non agiata.
Il compito dei genitori, oggi più che mai, non è facile: ma non è stata facile neanche la vita di Maria e Giuseppe. Come i genitori di ogni tempo, essi sono segnati da una radicale povertà, che il proverbio esprime in modo brutale: “Nessuno si sceglie i figli e neppure i genitori”. E tuttavia non c’è una missione più esaltante della loro. Se considerano i figli come un “dono”; se si impegnano a prepararli alla vita. E, lungi dal farne uno strumento per realizzare i sogni nascosti, accettano di aiutarli a scoprire, con fiducia e pazienza, la strada che Dio sembra disegnare davanti a loro. Strada in cui, inevitabilmente, non mancheranno anche le fatiche e gli ostacoli.
Come sarebbe bello, o Signore, se ogni genitore accogliesse ciascun figlio con lo stesso atteggiamento di Maria e Giuseppe, disposti a custodire un dono e a scoprire con lui il percorso che tu, speranza del mondo, gli hai tracciato perché sia abitato dalla tua pienezza.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Guida, 2020; Laurita, 2020.
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