Fino al 27 novembre al Teatro Prati di Roma la Compagnia Teatrale Umoristica Quartaparete di Fabio Gravina inaugura la stagione 2022/23 mettendo in scena “La fortuna con l’Effe maiuscola”, commedia comica in tre atti scritta da Eduardo De Filippo in collaborazione con Armando Curcio nel 1942.
E’ stata inserita da Eduardo all’interno della raccolta intitolata “Cantata dei giorni pari”, che comprende le opere da lui composte tra il 1920 e il 1942, in cui i “giorni pari” sono intesi come quelli felici e fortunati. Si differenzia dalla “Cantata dei giorni dispari”, dove sono descritte le commedie successive, realizzate tra il 1945 al 1973 e in cui prevarrà il pessimismo dell’autore, influenzato in parte dal relativismo e dal cosiddetto ‘umorismo’ pirandelliano, da cui si discosta per differente sensibilità e per una inconciliabile concezione filosofica.
La maschera, il dramma, lo strazio di vivere in Eduardo non è semplice astrazione, ma affonda le radici nel sociale, nel contrasto tra classi. Anche in questa commedia i temi delle credenze popolari, della miseria e dell’arrangiarsi abituale, di seducenti richiami inseguiti per combattere la rabbia quotidiana e alimentare l’illusione della facile ricchezza, disegnano con evidenza plastica e formidabile capacità espressiva l’affresco di una ricca e articolata umanità dolente, spesso in balia di furfanti e parassiti, alle prese con il proprio malessere e le proprie endemiche insoddisfazioni.
E’ da una profonda conoscenza del vivere che scaturisce la tipizzazione di personaggi sorprendentemente reali che assurgono ad una dimensione metatemporale e incarnano ogni sfumatura, ogni amara piega dell’essere umano. I sogni e le illusioni appartengono alla sfera emotiva ed irrazionale di chi è abituato da sempre a prendere la vita come viene, e l’ironia e il fatalismo, come la superstizione e le credenze popolari, se non consentono di avere tutto, fanno apprezzare il poco che abbiamo, contribuiscono a gestire l’ansia e, in buona sostanza, aiutano a vivere meglio.
Il grottesco, il paradosso, l’evidenza del ridicolo sono aspetti che appartengono alla caricatura dell’essere e sottendono un’inquietudine, un disagio che affligge l’uomo in ogni epoca ed emisfero, ma solo il teatro napoletano, e particolarmente la sofferta produzione di Eduardo, è in grado di rappresentare con drammaticità ed intensità esemplari l’aspetto comico che riverbera il tragico e lo legittima. Le virtù vanno ricercate, rivendicate ed esaltate, comunque, oltre le apparenze, oltre la disperazione, per risanare il dolore e rasserenare lo spirito.
Dopo essere stati vilipesi e a volte rinnegati, anche in questa commedia pervasa di malinconia e aspro umorismo, i buoni sentimenti, la dignità e il senso di giustizia riemergono perentori contro la disonestà, oltre ogni abiezione, mettono ordine fra le categorie di merito e prevedono il riscatto dell’individuo.
Siamo ai primi anni ’40. E’ la storia di un pover’uomo male in arnese, Giovanni Ruoppolo (Fabio Gravina), e della moglie Cristina (Mara Liuzzi) che vivono in un misero, freddo monolocale di un vecchio palazzo di Napoli, un’unica finestra priva di vetri che fa penetrare il gelo del vano scale su cui ha l’affaccio. Insieme a loro abita Erricuccio (Giuseppe Vitolo), un orfanello ritardato, figlio della sorella di lei deceduta di meningite e che i coniugi Ruoppolo hanno accolto con sé all’età di dieci anni nonostante le ristrettezze in cui versavano.
Un alto soppalco in legno ricavato da una parete dell’unica stanza funge da cameretta del ragazzo, una sorta di microscopico pollaio a cui si accede con una scala a pioli e da cui il sempliciotto Erricuccio imperversa. Nascosto da opportuna tendina, passa il suo tempo a infastidire chiunque gli capiti a tiro, spaventandoli con un fischietto a forma di pupazzo. Il suo comportamento suscita le ire dello spazientito padre adottivo che per dispetto e contro la sua volontà si ostina a chiamare ’papà’. Gli manda in fumo i pochi affari che rari clienti gli propongono.
Si diverte a ‘scassare’ con la fionda le lampadine delle scale che Concetta la portinaia (Patrizia Santamaria) ha appena cambiato e i vetri al ragioniere del piano di sotto. Riesce persino a rompere un uovo fresco di gallina che, con scaltrezza, il povero Giovanni si era appena procurato. Privo di quella che abitualmente si intende per malizia, nel suo essere semplice e ‘malato’ è guidato da una saggezza intuitiva, un’astuzia primordiale che arpiona e sconfessa all’istante i figuri loschi, immorali e falsi, o che solo si prendono gioco della sua condizione.
Come in ogni condominio che si rispetti, a Napoli non ci si annoia mai, e i pettegolezzi, gli inciuci e le spiate fanno parte dell’arredamento e dell’abituale folclore. La portinaia Concetta non smentisce l’assunto. Ai sussurri si preferiscono le grida. Quando poi ci sono di mezzo le corna, vere o presunte, il legittimo proprietario è autorizzato a fare di necessità virtù, e allora il tradimento diventa di dominio pubblico come non mai. Don Vincenzo (Antonio Lubrano) è un signore attempato che ha avuto in sorte una moglie giovane, avvenente e…’focosa assai’.
Donna Amalia (Claudia Federica Petrella) è tanto vogliosa e insaziabile quanto don Vincenzo sospettoso e cornuto. Lo stratagemma di far recapitare tramite Erricuccio, dietro congruo compenso, il biglietto di convocazione nella propria alcova all’amante Pietruccio (Eduardo Ricciardelli) non va a buon fine perché il marito, anziché partire per Salerno come sbandierato ‘urbi et orbi’, smaschera la tresca e coglie in flagrante la fedifraga.
In tali circostanze, oltre alle urla sono consentiti gli spari, purché non raggiungano il bersaglio e si metta a tacere l’accaduto, con la compiacente copertura di una sconveniente forza dell’ordine, il brigadiere della vicina caserma (Raffaele Balzano) che ha tutto l’interesse a mettere a tacere il grave episodio.
Le insidie sono dietro l’angolo ed hanno le sembianze di un sedicente personaggio, l’avvocato Roberto Manzillo (Raffaele Balzano) che propone a don Giovanni di dichiarare il falso e diventare per la legge il padre di un giovane aristocratico, il barone Sandrino di Torrepadula, figlio di padre ignoto, che se non sanerà con l’artificio quella macchia, non avrà in sposa la ricca figlia di un noto marchese. La fame non ha coscienza e al balenar della somma fa cadere maldestramente lo sventurato nella trappola.
Invece le bugie hanno sì le gambe corte, ma qualche volta offrono una seconda opportunità e fanno aprire i portoni. E allora da una disgrazia improvvisa come la morte del fratello americano, può nascere una fortuna imprevista, con la effe maiuscola, addirittura milionaria. L’ingordigia di chi troppo vuole, nulla stringe. E tale barone di Torrepadula, guappo aspirante parvenu, dopo aver rilanciato sulla pelle di un povero diavolo ricco di umanità latente e sentimenti ritrovati al momento opportuno, rimarrà con le pive nel sacco.
A rimettere le cose a posto ci pensa il figlio di un vecchio notaio amico di famiglia, divenuto nel frattempo notaio lui stesso, sulle orme del padre, come da italica inveterata tradizione. Provvidenziale sarà stata la testimonianza di Erricuccio che, superato il duplice trauma da spari vaganti, riacquisterà il dono della parola e, inopinatamente, orienterà gli eventi verso la soluzione auspicata. Il notaio Giuseppe Bagnulo (Gianni Quinto), risolti alcuni problemi dovuti ad incompatibilità nella ricezione del testamento, gestirà infine la transizione e sarà il garante della giustizia che trionfa.
Occorre però un bagno di umiltà e don Giovanni Ruoppolo, un po’ per interesse e un po’ per generosità d’animo, si autodenuncia ammettendo di aver commesso un illecito per imprudenza e per bisogno. Andrà incontro a cinque anni di galera, ma beneficerà subito, insieme alla moglie Cristina e ad Erricuccio, di quell’eredità smisurata piovuta come manna dal cielo. In questo modo sconterà il reato e non sarà più esiliato nel vero carcere duro in cui era costretto da sempre, che è quello della miseria.
Si ricompone così, pur nel momento del distacco, l’armonia familiare che la povertà estrema e la sofferenza avevano incrinato, suggellata da un atto d’amore del figlio sfortunato, riabilitato e non più apostrofato da colui che con orgoglio e non più per dispetto potrà finalmente chiamare ‘papà’. Sì, perché alla fine la fortuna vera, con la Effe maiuscola è quella che rinsalda il nucleo degli affetti autentici, quelli solidi, familiari e che non vanno mai barattati con nessuna effimera ricchezza perché rappresentano il bene più prezioso.
Gran bella commedia, la quintessenza del teatro di Eduardo, dolente, grondante ricchezza di sentimenti e di sociale, aperto alla speranza, e in cui la mano di Armando Curcio si fa più evidente in certe situazioni surreali, nelle battute paradossali, bizzarre, nella caratterizzazione eccentrica di Erricuccio.
Fabio Gravina è l’indiscusso capocomico di una compagnia coi fiocchi. Un mattatore di razza ampiamente collaudato. Presenza scenica ed espressione mimica inarrivabili. Rende il personaggio di Giovanni Ruoppolo da par suo. Gli infonde una vis comica per così dire amara, velata di struggente malinconia, esaltando la dignità e l’onestà di un pover’uomo che riscatta una vita di mortificazione in un crescendo di grande suggestione suggellata dalla scena finale.
Mara Liuzzi è la moglie Cristina. Una recitazione appassionata. Interpreta con intensità emotiva il ruolo di una donna umile, caparbia ed energica, tenera e protettiva, innamorata di un uomo difficile che la sovrasta, disposta a perdonare ogni colpa al suo orfanello ‘malato’ con l’amore e la dolcezza di una vera mamma.
Antonio Lubrano è don Vincenzo, il marito tradito. Solita grinta inesauribile, irruente e fuori controllo come si conviene in un ruolo tanto ingrato.
Claudia Federica Petrella è donna Amalia, moglie di don Vincenzo. Affascinante, maliziosa, prorompente. Assolutamente a suo agio in veste di moglie disinvolta e amante inesauribile.
Patrizia Santamaria è Concetta, la portinaia che ti aspetti. Adeguata e verace, impicciona e brontolona. Senza sbavature.
Giuseppe Vitolo è Erricuccio, l’orfanello ritardato. Un ciclone spassosissimo. Una macchietta irresistibile, il clone di Pietro De Vico nella circostanza.
Eduardo Ricciardelli è il barone Sandrino di Torrepadula e Pietruccio, amante di Amalia. Adeguato e calzante perfettamente come damerino insolente e provocatore nel primo ruolo e altrettanto in quello meno ‘nobile’ del cavalier fuggiasco.
Gianni Quinto è il notaio Giuseppe Bagnulo e il dottor Gervasi. Come notaio è diligente e professionale, signorile, un aplomb inappuntabile. Come medico curante alle prese con la afonia di Erricuccio è decisamente inquietante, incomprensibile ai Ruoppolo nel suo farlocco idioma pugliese che mortifica le vocali. Davvero bravo e convincente.
Raffaele Balzano è l’avvocato Roberto Manzillo e un brigadiere. Impostore eludi legge il primo e tutore di una legge fai da te alla ‘volemose bene’ il secondo. Puntiglioso e traffichino ‘umma umma’ in entrambe le parti. Bravo e puntuale anche lui nel doppio ruolo.
Scene e Costumi, appropriati ed essenziali, di Francesco De Summa.
Belle le musiche originali del maestro Mariano Perrella, chitarrista, cantante e leader del gruppo “I Pandemonium.” Anche lui presenza abituale al Prati.
La regia, come al solito illuminata e “rispettosa”, è di Fabio Gravina.
Sebastiano Biancheri
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