Dopo duemila anni rimane valida la domanda che interpella anche la gente di oggi: chi è Gesù? Chi è per le persone che si sentono a lui vicine, interessate al suo messaggio o in dovere di perseguitarlo, pronte a dare la vita per lui o ingaggiate per parlarne male? Gesù ha a che fare con la gente di sempre: la provoca, chiede una risposta, vuole che ci sia un confronto: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (v. 13). Gesù non ha paura dei dibattiti, purché ci si guardi negli occhi e non ci si nasconda dietro le pagine di un best seller o ci si faccia belli, pro o contro di lui, in un programma televisivo.
La domanda rimbalza nelle nostre case con frequenza, alla TV, nei circoli culturali, nelle librerie, a tavola, a scuola, a lavoro. Cosa dice la “gente” di Gesù nel bar, sul bus, quando muore qualche giovane di un male incurabile, quando un infarto stronca la vita di un giovane papà? Il Maestro quanto conta nella vita delle persone? Gesù sa bene ciò che la gente dice e raccoglie le grida di ciascuno. Sa bene, da quando si è fatto uomo, quanto sudore occorra per vedere Dio nelle vicende umane, soprattutto in quelle tristi, in quelle lontane dalla nostra volontà. Cosa dice la gente di Gesù? E’ una domanda che Gesù pone anche oggi. E sarebbe bello raccogliere le opinioni di tutti, perché tutte contengono qualcosa di vero, qualcosa di giusto, qualcosa di prezioso. La gente pensa sempre qualcosa del Figlio dell’uomo e spesso ciò che pensa esce dal modo con cui incontra oggi la Chiesa, nel bene e nel male.
Più interessante della prima, appare la seconda domanda di Gesù, rivolta ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” (8v. 15). Gesù mi chiede chi è lui “per me”. A questa domanda devo rispondere personalmente. Il resto diventa relativo. E’ sulla risposta di Pietro che Gesù edifica la sua Chiesa, davanti alla quale persino le forze più oscure, “gli inferi” (v. 18), non avranno potere. Se ci si fida di Gesù, se si risponde come Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16), se troviamo in lui non la soluzione di tutti i nostri dubbi, ma la porta aperta per molti sentieri che tentiamo di percorrere, allora la nostra casa non cade. La domanda del Maestro non deve intimorirci, anche se non abbiamo subito la risposta. Possiamo scommettere tutta la nostra vita nelle risposte dei fratelli e di Pietro: in quel cammino di Chiesa, su quella roccia, le nostre domande piano piano troveranno risposta.
Il vangelo di oggi (Mt. 16, 13-20) propone un rapporto privilegiato di Gesù con Pietro e i discepoli. Le domande di Gesù spesso sono una scusa per farsi aprire una porta. Sono occasioni per “ospitare” Colui che, di quella domanda, è origine e fine. La risposta ha bisogno di “gradini”. Prima la gente, poi i discepoli, poi Pietro, che Gesù riconosce quale destinatario di una rivelazione del Padre celeste (v. 17).
La prima domanda del Maestro dice che è facile, anche oggi, parlare “su Gesù”. Parlarne in una trasmissione televisiva o radiofonica, su internet, approfondire l’ambiente della sua vita e della sua morte, raccontare se i vangeli sono fonti storiche autorevoli oppure no. Ma è la seconda domanda a far chiarezza sull’intento del Maestro: “E voi, chi dite che io sia?” (15). La domanda sottintende che, per rispondere, non serve una sapienza umana, ma un’esperienza viva col Maestro. E’ stando con lui, ascoltando Chi lui ascolta, cioè il Padre, che si può rispondere. Non cosa pensano gli altri, non cosa dicono su di lui, ma cosa dico io dopo che l’ho incontrato. Se Gesù vale più di tutto, perché so chi è, la mia vita si trasforma di conseguenza.
“Tu sei il Cristo!” (v. 16): il Messia, cioè l’Unto del Signore. La professione di fede di Pietro merita l’adesione di tutta la nostra vita. Non ritagli di tempo, non briciole d’impegno, ma tutto.
“Il Figlio del Dio vivente!”: espressione tipicamente cristiana che colloca Gesù nel regno del Padre, uguale a lui. Se Gesù è Dio, la sua Parola è divina e “obbliga” la mia vita a seguirla, a metterla in pratica, senza sconti o scuse.
C’è una beatitudine, una felicità, che non appartiene a questa terra. Qui, semplicemente, si può averne un assaggio. La fede in Gesù non è una conoscenza distaccata e asettica di lui, ma un affidamento a Colui che è il Figlio di Dio vivo. Il cristiano dovrebbe sviluppare una spiritualità del “quindi”: ascolto la Parola, incontro il Signore nei sacramenti e nei fratelli. Ma io, quanto permetto che quell’incontro cambi la mia vita, la raddrizzi dalle sue storture, ne intensifichi il bene? E’ su questa apertura che la parola del Maestro costituisce il discepolo come “capo”, come “roccia” (v. 18). E mai dovrà dimenticarsi, Pietro, che non può staccarsi dalla roccia unica che è solamente il Cristo vivo, sul quale si fonda anche ogni forma di autorità, che è servizio. Bisognerebbe gridarlo a tutti, annunciarlo ovunque e sempre.
Gesù, al contrario, chiede di tacere. C’è ancora la croce da affrontare e lo scandalo della debolezza di Dio. Quando uno soffre, forse ha bisogno di silenzio, di amici e fratelli che camminano con lui, di riflessione, di solidarietà che si trasforma in comunione. Se voglio essere discepolo del Cristo, dopo averlo riconosciuto, m’incammino con lui, in silenzio, verso la croce. La fede non è mai soltanto gioia di aver capito. E’ professione di parole e vita coerenti. Silenzio davanti al dolore e mano tesa perché quella strada verso Gerusalemme sia meno dura.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: D’Agostino, 2020.
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