Categorie: Interviste

“La grande invenzione” di Pupi Avati

Francesco Vergovich e Pupi Avati iniziano a parlare accompagnati dalle note di Bing Crosby, cantante noto ai gusti musicali del regista e sceneggiatore italiano.
Il leitmotiv dell'intervista è l'autobiografia di Pupi Avati, dal titolo 'La grande invenzione', ed. Rizzoli.

Credi di aver scelto l'età giusta per raccontarti?

Sì, anche se in realtà non è stata una mia idea. E' arrivata una persona della Rizzoli e mi ha detto "ma perchè lei non ci racconta la sua vita?". Io ci ho pensato due o tre giorni, e poi ho pensato che potesse essere utile agli altri.
Insomma, immaginate una persona che si trova a un certo punto trentenne, sposato, con dei figli, a Bologna negli anni'60, che per mestiere vende il pesce surgelato e che un bel giorno, improvvisamente si ritrova qui con 45 film alle spalle. Come è possibile che la vita produca degli scossoni e degli spostamenti così radicali? Come poteva immaginare il ragazzo del '63 quando convinceva il salumiere a comprare un filetto di sogliola livanda che avrebbe fatto due film con Tognazzi e quattro in America? La vita, e lo dico con sincerità, riserva delle enormi delusioni e delle grandissime sofferenze che sono in genere molto formative, propedeutiche. Io ho incontrato grandi attori, quelli veri, e ne ho avuti di grandi attori sui miei set, non sempre ahimè, ma qualche volta sì; ed erano gli attori che provenivano dalla grande scuola del dolore, del rammarico, della sofferenza. Perchè la sofferenza ti insegna la vita più di qualunque altra cosa. Lo sconfitto, il perdente. Fra il vincitore e lo sconfitto, in un match è quello che va al tappeto che può riferire, raccontare l'incontro molto di più di quanto non possa fare il vincitore che ha vissuto in un'ebbrezza che l'ha travolto, non ha capito più niente ed è finita lì. Lo sconfitto invece matura dentro di sè minuto per minuto, secondo per secondo. Ed io che sono campione di cadute, di ferite e di sconfitte credo di sapere bene della vita, del matrimonio, di figli, adulterio, corna, successo, insuccesso, soldi, anche di miseria, di tutto. E della morte, che è una conoscenza fondamentale per poter parlare della vita. Cos'è la morte? nessuno riesce neppure a immaginarla la propria morte. Invece io vengo da una cultura in cui ognuno parlava di morte, della sua morte, con estrema disinvoltura. Io accompagnavo il sabato e la domenica mio nonno al cimitero, e lui chiedeva a me e a mia nonna se secondo noi avrebbe dovuto mettere la lapide lì o lì.

Come spieghi le tue incursioni verso l'horror, genere così lontano dalla tua poetica?

Lo spiego attraverso la cultura contadina, da cui provengo. Io ho vissuto i primi anni della mia vita per motivi bellici in campagna. Allora i gesuiti dicevano "dateci il bambino per i primi cinque anni della sua vita, riprendetevelo e sarà nostro per sempre".
L'imprinting mi viene dalla cultura contadina, che è fatta anche di favole orrorifiche, quelle più terrificanti, e ce le raccontavano per mandarci a letto e farci stare buoni. Ci raccontavano delle cose veramente atroci; ci portavano anche in questi stanzoni bui, e il buio della campagna era il buio vero, non come oggi che io il buio non riesco più a trovarlo, dov'è il buio oggi? Insomma, ci abbandonavano in queste stanze buie piene di cigolii, miagolii e rumori, e in quelle occasioni la nostra immaginazione era costantemente sollecitata. Perchè la paura produce quell'energia fantastica che è la creatività, l'immaginazione, che è fondamentale soprattutto per chi vuole fare un lavoro come il mio.
La cultura contadina allargava gli spazi alla fantasia. Oltre alla ragione, alla cultura e al sapere, includeva tutto quello che in qualche modo rientra nel confine fra il pensabile e l'impensabile. Anche il tipo di religiosità, che sembrava quasi superstizione, era aperta al fantastico. Mia nonna parlava di miracoli come fossero assolutamente cose possibili.

Un ricordo del cult "La casa delle finestre che ridono"?

Il film nasce da una riesumazione dei cadaveri di un piccolo cimitero di Sasso Marconi, durante la quale si scoprì che lo scheletro del parroco di trenta, quaranta, cinquanta anni prima era uno scheletro di donna e non di uomo; quindi la chiesetta di campagna aveva avuto un parroco donna. La leggenda del parroco donna che si aggirava per la sagrestia della chiesa era terrificante. Pensate che a noi da piccoli, anche le mie zie, ci minacciavano con la storia del prete donna: "guarda che arriva il prete donna con i tacchetti e le unghiette". Questo film prende spunto proprio da questa storia.

Il tuo rapporto con le bugie?

Ottimo! Nel senso che le frequento spesso, le bugie. Beh, per poter raccontare e essere un narratore bisogna alterare un pochettino la realtà, travisarla un pochettino, imbellettarla e arricchirla.
Anche la storia su Lucio Dalla, che volevo buttarlo giù dalla Sagrada Familia, io me l'ero inventata e lui ci ha creduto sul serio.

Un genio come Federico Fellini oggi ci manca?

Ci manca tantissimo. Nella mia esistenza è stato fondamentale, gli ricordavo sempre che se facevo questo mestiere era solo grazie a lui. Fellini mi ha fatto capire veramente cos'è il cinema.

Secondo Pupi Avati, Quentin Tarantino è da Oscar?

Io ero in giuria a Cannes insieme a Clint Eastwood, Catherine Deneuve, ed eravamo molto perplessi finchè non è arrivato 'Pulp Fiction'. In quel momento tutti quanti all'unanimità votammo per assegnargli la Palma D'Oro. Quel capolavoro, anche se Tarantino ha fatto altri film e molto belli, ancora non è stato replicato.

Cosa pensi di quei personaggi che non fanno più solo spettacolo e si buttano in politica, come Celentano o Grillo per esempio?

Io ho una conoscenza troppo profonda degli attori per dire esattamente cosa penso. Un attore rimane un attore fino alla fine dei suoi giorni, anche se cambia mestiere o se diventa governatore della California. Sto per dire un'enormità, ma penso che se a Grillo portassi un copione come regalo di Natale, secondo me lui manderebbe all'aria tutto il suo progetto politico pur di venire a fare il film.

Redazione

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