La guarigione del cieco nato (Gv. 9, 1-41) rappresenta un’ulteriore tappa del percorso verso la fede che l’evangelista Giovanni fa compiere al lettore del suo vangelo. Come sempre, la luce degli occhi donata al cieco dalla nascita ha un aspetto simbolico e rimanda a un livello più profondo: solo poche parole sono impiegate per descrivere la sua esecuzione (vv. 6-7), mentre la maggior parte dell’episodio è dedicata alla discussione sulla sua interpretazione e sul valore che esso ha in relazione alla persona di Gesù.
Si inizia con un dialogo tra Gesù e i discepoli cui segue l’azione miracolosa; i conoscenti si interrogano sull’identità del cieco risanato e lo conducono dai farisei, con i quali si accende una discussione sempre più accanita, che coinvolge anche i genitori dell’uomo e che si conclude con la sua cacciata dalla comunità.
Al crescendo drammatico corrisponde anche una progressione nella fede del cieco risanato: se inizialmente identifica l’autore del miracolo solo come un uomo che si chiama Gesù (v. 11), nel dialogo con i farisei, lo riconosce come un profeta (v. 17), e successivamente come una persona che proviene da Dio (v. 33); infine Gesù stesso gli richiede una professione di fede e lo conduce a riconoscerlo come “il figlio dell’uomo” (vv. 35-38). Alla fede del cieco guarito corrisponde al contrario l’atteggiamento dei farisei, i quali non pronunciano mai il nome di Gesù e lo chiamano soltanto “quell’uomo”.
La mentalità comune riteneva che all’origine di una malattia ci dovesse essere un peccato; nel caso di un’infermità dalla nascita, tale peccato andava imputato ai genitori. L’uomo sente sempre la necessità di trovare una spiegazione all’origine del male fisico: alcuni testi biblici dichiarano che di fronte al peccato la responsabilità è personale, per cui i figli non possono essere puniti per le colpe dei genitori. Nonostante ciò, ancora all’epoca di Gesù si avvertiva la presenza di un legame tra malattia e peccato, e si riteneva possibile che la colpa dei genitori potesse ricadere sui figli.
L’obiezione dei farisei parte dalla costatazione che la guarigione è compiuta in giorno di sabato (v. 14): le azioni di Gesù nel compiere il miracolo (sputare per terra, fare del fango con saliva e spalmarlo sugli occhi del cieco) erano lavori proibiti di sabato. Quindi, Gesù è un peccatore perché ha violato il sabato. Si accende la discussione paradossale: Gesù è un peccatore o un uomo di Dio per il miracolo compiuto?
Al paradosso del prodigio compiuto da un presunto peccatore, l’evangelista ne aggiunge un altro: i farisei non sanno riconoscere la venuta del messia, mentre un uomo senza cultura, il cieco nato, ha compreso il messaggio di Mosè meglio degli “intelligenti esperti”. E Gesù alla fine ritorna per andare in cerca dell’uomo guarito, suscitando in lui la sua fede piena: “Credo, Signore!” (v. 38).
Le ultime righe del brano riportano un breve dialogo tra Gesù e “alcuni dei farisei che erano con lui” (v. 40). La risposta di Gesù gioca sulla natura della cecità: se quella fisica deriva dalla natura, in campo spirituale è coinvolta la responsabilità dell’uomo, chiamato a prendere posizione di fronte all’accoglienza dell’inviato di Dio. Il peccato dei farisei è costituito dal rifiuto di credere alla rivelazione di Dio, anche se avrebbero avuto tutti gli strumenti e i presupposti necessari per accoglierla; è quindi un rifiuto senza alcun motivo e senza giustificazione.
“Se foste ciechi, non avreste nessun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (v. 41). Questa affermazione di Gesù mette in luce un altro paradosso: i ciechi vedono, mentre coloro che apparentemente vedono sono in realtà ciechi. Così viene ribaltata la situazione di partenza: la cecità fisica non è dovuta al peccato dell’uomo o dei suoi genitori; al contrario il peccato dei farisei, che non hanno voluto riconoscere Gesù, è la causa della loro cecità spirituale.
La guarigione del cieco nato non è solo la storia di un miracolo, ma l’inizio di un percorso che lo condurrà alla fede. Il racconto è la controprova che il miracolo non produce nulla in chi non ha fede in lui. Anzi, sembra addirittura accelerare l’indurimento del cuore. La fede è uno sguardo nuovo gettato sulla realtà che ci circonda e su noi stessi. Siamo tutti dei ciechi nati, nella misura in cui nessuno di noi può raggiungere da solo la “luce” della fede.
Se all’inizio c’è l’intervento di Dio, che ci raggiunge attraverso Gesù, è altrettanto vero che poi c’è un cammino da compiere, e non privo di difficoltà. L’incontro con Gesù, quello che apre gli occhi della fede, avviene proprio a questo punto. E’ un isolato, un emarginato, quello che si imbatte nel suo guaritore. Ed è proprio da questa posizione di grande fragilità che egli è invitato a prendere posizione. Non è più il momento di raccontare, ma di professare la propria fede.
Oggi, come duemila anni fa, coloro che vengono alla fede si trovano davanti a fare lo stesso cammino. C’è una lotta che attende il discepolo. Egli non può rimanere neutrale: deve esporsi, e proprio per questo diventa fragile. Lo salva la fiducia che egli ripone in Cristo, riconosciuto come il Signore e il Salvatore della sua vita. Lo salva lo sguardo limpido e nuovo, che gli fa conoscere una nuova esistenza, l’esistenza dei figli di Dio.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Vuaran, 2023; Laurita, 2023.
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