Elisabetta Federico, Lisa, ricoverata per una patologia non oncologica, morì il 3 novembre 2020 presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma a seguito di una infusione di midollo osseo disgraziata. Le relative vicende giudiziarie avviate due anni orsono non hanno portato ad alcun risultato tangibile. In compenso però, pochi giorni fa la casa dei genitori di Lisa è stata sottoposta a una perquisizione sulla base di una denuncia sporta dal responsabile del reparto dove Lisa morì. Il mondo al contrario, ma sul serio.
Ottenere una qualsiasi giustizia con il passare del tempo sta diventando per noi, familiari di Lisa, sempre più uno sfocato miraggio. Miraggio inteso come quell’immagine falsa che si forma agli occhi di chi quell’immagine arde dal desiderio che corrisponda a qualcosa di reale.
E questo stato d’animo, sempre più spietato, ci accompagna ogni giorno che passa. E la certezza del torto subito serve solo a rendere il tutto meno sopportabile. Perché una cosa deve restare ben fissa nella mente di coloro i quali nella vita non si sono mai imbattuti nella materia.
Gli altri, medici, infermieri, operatori sanitari, scienziati di vario tipo, già lo sanno bene: infondere un midollo osseo insieme a 350 mL di globuli rossi non compatibili implica inevitabilmente una condanna a morte. In verità ne bastano molti meno, anche solo 20 mL, come la letteratura medico-scientifica insegna.
Lo stato d’animo di chi non riesce a liberarsi dalla convinzione di aver subito un torto estremo e senza ritorno non è un granché, soprattutto quando si incrociano gli sguardi della gente fuori di casa. In mancanza di fiducia, le altre persone perdono immediatamente gran parte dell’interesse ai nostri occhi. E non è neanche detto che questo stato d’animo potrà in futuro migliorare anche in presenza degli esiti giudiziari più favorevoli.
In questo quadro, sentirsi svegliare una mattina da cinque Carabinieri in possesso di un mandato di perquisizione, può avere qualsiasi effetto. Stanno cercando te, dice mia moglie dopo aver aperto loro la porta. Un primissimo momento di rabbia inesplosa fa subito seguito ad una rapidissima ricerca di una qualsiasi motivazione. Omicidio, no, non mi risulta. Rapina, terrorismo, figurati. Furti, violenze… Ma per carità. Qualcuna di queste cose magari le ho subite, certo non le ho commesse. E ora mi arrivano i Carabinieri, e io qui, in tenuta da notte con la mia inevitabile faccia da stupido che posso offrire alla situazione.
Ma cosa ho fatto? In pochi secondi passo dal fallimento nella ricerca di una qualsiasi causa plausibile, inclusa la dimenticanza del pagamento di un bollo auto, all’inevitabile riproposizione delle scene del film “Detenuto in attesa di giudizio”. Ma allora queste cose succedono veramente, finirò davanti a un secondino che mi chiederà di liberarmi di tutti gli effetti personali. Anche perché sono già sveglio, non sto ancora dormendo, ahimè. Ma io la giustizia la stavo invocando per Lisa, non la stavo fuggendo per chissà quale motivo.
Tutto questo in pochi secondi accompagnato da quel giramento di testa che mi ha sempre accompagnato in occasione delle più grandi disgrazie. Lo provai identico quando mia madre morì tra le mie braccia. Lo provai alla fine della giornata in cui Lisa ricevette l’infusione che si rivelerà mortale. Lo provai quando seppi che Lisa ci aveva lasciato. E ora questi signori mi vogliono in carcere?
Ecco il mandato di perquisizione, mi dicono. Ecco i reati di cui è accusato. Chi denuncia? Non lo possiamo dire. Lo scoprirò di lì a poco. Cosa ho fatto? Ha mandato email di insulti e minacce. A chi, chiedo. Non glielo possiamo dire. Per le email minatorie lei ha usato questa applicazione di anonimizzazione. Ma che roba è questa, chiedo e mi chiedo. Mai sentita una cosa simile. Signore, ora vediamo di trovare questa applicazione sui suoi PC e cellulari.
Come andò a finire la storia l’ho già raccontato, per esempio, su questa intervista all’ANSA e in questo bell’articolo.
Al di là dell’aspetto kafkiano dell’intera vicenda, nonché dei signori che ne hanno tirato le fila, uno degli aspetti più notevoli della vicenda riguarda cosa può tornare a cittadini che chiedono giustizia per un ovvio episodio di malasanità. Intimidazioni e messaggi neanche troppo trasversali da parte dello stesso apparato giudiziario, tanto per cominciare. Di propria iniziativa o istigato da chi?
Una considerazione su tutte. Nella prima delle finora inutili udienze del processo penale inerente la morte di Lisa, la giustizia si mostrò veramente clemente nei confronti di una delle imputate che voleva a tutti i costi presenziare, e che per questo chiese di rimandare l’udienza perché sofferente di mal di schiena. L’allora giudice non se lo fece dire due volte, tutti a casa e tutto rimandato di 15 giorni. Salvo che, alla data prefissata per la nuova udienza, l’imputata si guardò bene dal presentarsi in assenza di qualsiasi altra malaugurata malattia buona all’uso.
Questo volto “gentile” la giustizia pare invece esserselo dimenticato all’atto di prendere la decisione di mandare 5 Carabinieri per una perquisizione personale, ambientale e informatica all’alba in casa di due genitori cha avevano osato chiedere giustizia per la morte assurda della propria adorata figlia. La decisione sarebbe stata discutibile in presenza di un qualche straccio di indizio plausibile. Assume tutta la ferocia voluta avendo constatato la totale infondatezza di accuse per riscontrare le quali ci sarebbero stati mille altri modi decisamente meno intimidatori.
Noi, genitori di Lisa, rimaniamo qui, senza alcuna garanzia che questa macchina del fango non possa assumere da un giorno all’altro dimensioni ancora più spietate. Ci fa forza la consapevolezza che sull’argomento ormai abbiamo ben poco da perdere, avendo già perso una figlia e finanche uno straccio di considerazione da parte di coloro ai quali abbiamo posto la domanda: ”E’ stato inevitabile che Lisa ci abbia lasciato in questo modo?”. La nostra lotta, che porteremo avanti fino a che il respiro non ci si interromperà per qualsiasi causa, è tutta dedicata ai bambini, ai genitori, alle vittime delle ingiustizie più palesi, nella memoria di Lisa. Per questo il nostro mantra è ora diventato:
”Parlate di Lisa, parlate di Sanità, parlate di Giustizia”.
Ama il silenzio solo chi non vuole una Sanità vicina ai dolori dei cittadini e una Giustizia giusta.
Maurizio Federico, papà di Lisa
Dr. Maurizio Federico
National Center for Global Health
Istituto Superiore di Sanità, Viale Regina Elena, 299
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