Gesù, lungo il cammino che lo porta verso Gerusalemme, prosegue l’ammaestramento dei discepoli con la parabola degli operai mandati a lavorare nella vigna (Mt. 20, 1-16).
La parabola presenta un quadro di vita quotidiana: un padrone esce di buon mattino in cerca di lavoratori per la sua vigna (v. 1). Poiché la giornata lavorativa durava circa dodici ore, si capisce perché la sua ricerca sia iniziata di buon mattino. Del tutto normale anche il compenso giornaliero di un denaro, esplicitamente pattuito con gli interessati (v. 2). Forse il padrone aveva valutato in modo errato la quantità di lavoro da fare e questo gli aveva impedito di assumere fin dall’alba la manodopera sufficiente. Di fatto, il padrone della vigna si reca in piazza alle nove dove incontra gente disoccupata e manda anche loro a lavorare nella sua vigna.
E’ però incomprensibile la chiamata al lavoro delle dodici e delle quindici, come pure la ricerca di operai alle cinque del pomeriggio, un’ora prima del termine della giornata lavorativa (vv. 6-7). L’evangelista vuole semplicemente dire che non tutti hanno lavorato lo stesso tempo e che a prestazioni diverse dovrebbero corrispondere retribuzioni diverse.
A sera, e qui inizia la seconda parte della parabola, si regolano i conti iniziando dagli ultimi (v. 8). Dalla costatazione che gli ultimi operai percepiscono “un denaro”, nasce nei primi la convinzione di meritare di più, in quanto essi hanno effettivamente lavorato di più. Le loro attese però sono deluse al momento di ritirare il salario, perfettamente uguale a quello degli altri: “un denaro” (vv. 9-10). Ne nasce un’aspra critica al padrone che, non avendo diversificato il compenso, non ha riconosciuto il maggior lavoro e la più dura fatica dei primi (vv. 11-12).
La terza parte della parabola presenta il padrone che risponde alla provocazione degli operai della prima ora e giustifica il proprio operato (vv. 13-15). Si rivolge al portavoce del malcontento generale chiamandolo amico. La risposta si muove in due direzioni: quella della giustizia e quella della bontà. Per prima cosa il padrone mostra che non è stata infranta nessuna regola di giustizia: il denaro pattuito è stato regolarmente dato, e lui quindi non può essere tacciato di ingiustizia verso i lavoratori ingaggiati per primi. Se infatti costoro avessero ricevuto la paga senza conoscere la retribuzione data agli altri, non sarebbe sorta nessuna recriminazione.
Salvaguardato il diritto del lavoratore, il padrone rivendica un suo diritto, vale a dire quello di amministrare le sue cose come meglio crede. Con questo modo di agire, il padrone lascia intravedere una logica talmente nuova da essere totalmente estranea alla logica dei primi operai. Il minor lavoro di alcuni non era dovuto a cattiva volontà o negligenza, ma al solo fatto di essere vittime della disoccupazione: “nessuno ci ha presi a giornata” (v. 7). Frazionare il denaro il base alle effettive ore lavorate significava non dare a quei lavoratori il necessario per loro e le loro famiglie.
L’osservanza formale del principio della retribuzione differenziata avrebbe trascurato questo dato importante, danneggiando delle persone colpevoli solo di essere state ingaggiate tardi per il lavoro. Il padrone non è tenuto a prendersi cura dei poveri, però nella sua bontà viene incontro alle loro esigenze e garantisce a tutti il necessario per vivere. Facendo questo non toglie niente a nessuno, non lede il diritto di nessuno, non contravviene a nessun contratto, ma dà a tutti quanto è sufficiente per vivere.
“Sei tu invidioso perché io sono buono?” (v. 15). Gli operai sono invitati a riconsiderare le loro motivazioni. Ciò che li irrita è vedere che gli ultimi arrivati percepiscono tanto quanto loro: “Li hai trattati come noi” (v. 12). Non è più in gioco la giustizia, ma la solidarietà, la condivisione, l’attenzione all’altro e al suo bisogno. Al padrone spetta smascherare la loro vigliaccheria, il loro occhio cattivo (invidioso). E l’occhio è cattivo perché è cattivo il cuore, sede dei pensieri e delle decisioni. Il padrone rivela che colui che brontola non è un paladino della giustizia, ma un portatore di malvagità.
Tutta la cattiveria parte dall’occhio, cioè da ciò che appare e si vede. Il lavoro di dodici ore è molto più del lavoro di una sola ora. Se il criterio dell’occhio non è onorato, nasce l’invidia e la protesta. Per evitare l’invidia bisogna cambiare il criterio. La parabola in effetti lo propone: il criterio non è l’occhio di chi ha lavorato, ma il cuore di chi ha dato il lavoro. E quel cuore è capace di dare molto, in maniera sproporzionata e inattesa. E’ un cuore “buono” infatti.
Forse anche noi siamo tra coloro che mugugnano e condannano la bontà di Dio verso quelli dell’ultima ora. L’agire di Dio è, e sarà sempre, sorprendente, non corrisponde alle nostre anguste vedute. L’uomo deve imparare ad aprirsi a questa logica di Dio caratterizzata da una infinita bontà.
“Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi” (v. 16). Questa aggiunta di Matteo fa comprendere alla sua comunità cristiana il rovesciamento di situazione che si è verificato nelle relazioni tra Israele e i pagani, una volta che questi hanno aderito alla fede. E la sorpresa che “gli ultimi” diventino “primi” è sempre incombente anche ai nostri giorni: coloro che noi “giudichiamo” ultimi, perché lontani dalle nostre chiese, ci passano avanti nel Regno di Dio.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Boscolo, 2020; Carrara, 2020.
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