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La parabola dei talenti affidati

Il Vangelo (Mt. 25, 14-30) della penultima domenica del Tempo ordinario ci proclamerà la parabola dei talenti, conosciuta da tutti fin dalla nostra infanzia catechistica. Gesù narra di un padrone che al momento di intraprendere un lungo viaggio affida ai suoi servi i suoi beni con l’impegno di farli fruttificare fino al suo ritorno. Interessante ciò che succede al ritorno del padrone: i tre servi a cui aveva affidato i suoi beni si presentano e ognuno dice quel che ha fatto del suo denaro, e ascoltano il giudizio del padrone sulla loro condotta. I due primi servi, che hanno lavorato bene, vedono il loro caso sistemato in due versetti (vv. 20-23), mentre per il servo cattivo se ne dedicano sette (vv. 24-30). Il che significa che siamo il presenza di un’antitesi: ciò che importa è il contrasto che oppone i primi due servi al terzo. Per cogliere il significato della parabola dobbiamo concentrare l’attenzione sul servo cattivo e la chiave del racconto sta nel dialogo tra lui e il suo signore.

Per farsi un’idea degli interlocutori a cui Gesù destinava la parabola, basta ascoltare le spiegazioni date dal servo cattivo: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato, e raccogli dove non hai sparso” (v. 24). Questo signore si arricchisce con ciò che non gli appartiene, esige ciò a cui non ha diritto: dunque è ingiusto! Poi il servo parla di se stesso e spiega perché ha nascosto sottoterra il talento del padrone: “ho avuto paura di te!”. Restituisce allora il denaro, sottolineando che il conto è esatto: me ne hai affidato uno e te lo restituisco. Egli crede di non aver danneggiato il suo padrone e si sente sdebitato nei suoi confronti, pensando sempre che la giustizia è dalla sua parte. In nome di questa stessa giustizia, contesta al suo padrone il diritto di reclamare più di quanto gli ha consegnato.

Tale punto di vista si allinea bene con quello degli operai della prima ora, e con le recriminazioni del figlio maggiore nella parabola del figliuol prodigo. Si tratta degli scribi, dei farisei, dei pii che osservano la Legge. Di fronte alla condotta di Dio, quale si manifesta nel ministero di Gesù, essi insorgono: se realmente Dio agisse come dice Gesù, la sua condotta non sarebbe giusta. Nella parabola che stiamo esaminando, gli interlocutori di Gesù sono pieni di paura verso Dio, che li induce ad attenersi alla più stretta giustizia. Compiranno esattamente il loro dovere, cosicché il Signore non possa rimproverar loro niente; ma si attendono da lui una giustizia uguale e si rifiutano di accettare che egli esiga da loro più di quanto è prescritto.

La risposta di Gesù (vv. 26-27)

Il signore della parabola comincia col ripetere ciò che il servo ha appena finito di dire sull’argomento: non si difende, ma accetta l’idea che il servo si è fatta di lui. Vuole mostrare al servo il suo errore ponendosi dal suo punto di vista. Il servo si considera sdebitato restituendo al signore quello che gli appartiene, ma in ciò si sbaglia. Non restituendogli più di quanto ha ricevuto, il servo danneggia il padrone, che aveva diritto agli interessi del suo denaro: “Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri perché io, venendo, potessi ritirare il mio con l’interesse” (v. 27).

Non è facile trasportare questa risposta sul piano della realtà religiosa. Restando nella prospettiva della parabola, occorre interpretare la risposta del signore nel suo insieme. E tale pensiero deve essere ricercato nel rapporto che unisce le due parti, e più ancora forse nel rapporto che corre tra la risposta e il problema sollevato. Considerate insieme, le due parti collocano l’uno di fronte all’altro: il padrone come padrone e il servo come servo. Ponendosi sul piano della giustizia, il servo cattivo aveva giudicato il signore e anche se stesso. La risposta del padrone mira a ricordargli un dato essenziale a cui non sembra che egli abbia pensato: cioè che il padrone è il padrone e, come tale, ha il diritto di venire servito; quanto al servo, precisamente perché servo, deve servire il suo signore e compiacerlo. Sapendo che il suo padrone avrebbe reclamato più di quanto avesse dato, il servo aveva il dovere di depositare il denaro per riceverne gli interessi e conformarsi così alle intenzioni del suo signore.

Se tale è il senso della risposta, l’applicazione non presenta più difficoltà. Gesù ha davanti a sé uomini che respingono il suo messaggio con le esigenze che esso comporta. Pretendono di attenersi alla lettera della Legge, che conferisce loro la sicurezza davanti a Dio. Con la osservanza scrupolosa dei comandamenti, credono di rendere a Dio ciò che gli è dovuto: egli non potrebbe esigere di più senza infrangere la giustizia. Pensano dunque di non dover prestare attenzione all’invito rivolto da Gesù. L’atteggiamento dei pii farisei disconosce la vera natura del rapporto che lega l’uomo a Dio. La situazione dell’uomo davanti a Dio è la situazione di un servo che, come tale, ha il dovere di accettare e di compiere quello che Dio gli chiede. E non con un atteggiamento servile ma con amore e libertà, perché Dio è amore!

L’interpretazione di Matteo

Trasmettendo questa parabola in un contesto di “vigilanza”, Matteo dice ai suoi cristiani di restare vigilanti al pensiero del giudizio a cui verrà sottoposta la loro condotta e da cui dipende il loro ingresso nella felicità del regno. Tale vigilanza è insieme fedeltà nell’adempimento dei compiti che sono stati loro assegnati, ossia di tutti i doveri della loro vita cristiana. Per aver parte alla salvezza, non basta ascoltare la Parola di Dio, ma occorre metterla in pratica e trarne frutto. Voler eludere tale fatica significa dar prova di pigrizia e andare incontro al più terribile castigo. Il credente che non traduce il messaggio cristiano nei suoi atti non ottiene alcun vantaggio da ciò che ha ricevuto: è simile al servo che non si è preoccupato di far fruttare i talenti che aveva ricevuto.

Il Vangelo è un capitale: quelli ai quali è stato affidato non hanno il diritto di lasciarlo improduttivo. Devono farsi trasformare dal Vangelo ed ispirarvisi in tutta la loro attività. Solo così si mostreranno “fedeli” a colui che glielo ha affidato.                                                                                                                        

Bibliografia consultata: Dupont, 1970.

Redazione

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