La parabola dei talenti: paura o fiducia?
La fede non è un oggetto prezioso da conservare così com’è, ma una realtà viva, come una pianta, che domanda cure continue e attenzione costante
La parabola dei talenti (Mt. 25, 14-30) fa parte dell’ultimo grande discorso escatologico (finale) del vangelo di Matteo. In esso si danno le indicazioni spirituali pratiche sul come attendere il Signore anche se la sua venuta è dilazionata nel tempo.
Una parabola in tre quadri
La storia si sviluppa secondo tre momenti. Il primo è occupato dall’affidamento dei beni ai servi e la partenza del padrone. Le indicazioni si riducono all’essenziale per capire il seguito. C’è subito una caratterizzazione dei servi in base al diverso affidamento dei beni, tradotti in termini monetari in forma di “talento”: al primo ne affida cinque, al secondo due, al terzo uno. Nota l’evangelista: “secondo le capacità di ciascuno” (v. 15). Questa diversa distribuzione non ha lo scopo di discriminare o creare presupposti psicologici per il comportamento successivo dei servi, ma quello di responsabilizzare in forma personale i tre servi nei confronti del loro padrone.
Il secondo momento presenta il comportamento dei servi nell’attesa che il padrone ritorni dal suo viaggio. Subito si distinguono i primi due per l’impegno che li porta a raddoppiare i talenti ricevuti. Contrapposto a questi il terzo servo nasconde il talento che gli è stato affidato in una buca nel terreno.
Nel terzo quadro, che è il più ampio e dettagliato, si descrive il ritorno del padrone dopo molto tempo e il rendiconto dei servi. Questo è il momento critico di tutta la vicenda, verso il quale sono orientati i due momenti o atti precedenti del dramma. L’incontro del padrone con i servi è incentrato su un dialogo. Nel caso dei primi due servi il dialogo è perfettamente simmetrico e anche le sequenze procedono con lo stesso ritmo: la resa dei talenti raddoppiati, l’elogio del padrone, e infine la ricompensa, che, nella sua parte finale, oltrepassa la prospettiva e allude alla realtà spirituale significata: “prendi parte alla gioia del tuo padrone” (vv. 21.23).
Una questione di relazione
Il terzo dialogo è quello sul quale l’evangelista richiama l’attenzione. “So che sei un uomo duro… Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo” (vv. 24-25). Nelle parole del servo è evidente la preoccupazione di autogiustificarsi. La scelta del terzo servo è determinata dalla paura, e quest’ultima deriva dall’immagine che egli si è fatto del suo padrone. Non solo gli viene tolto il talento, ma egli viene gettato fuori nelle tenebre dove “sarà pianto e stridore di denti” (v. 30).
Paura o fiducia
Il padrone partito e che ritorna dopo molto tempo è il Signore; i servi sono i discepoli che hanno ricevuto l’impegno ad attuare la fede in una prassi di amore generoso. La falsa relazione con il padrone, dominata dalla paura, impedisce un impegno attivo e generoso. Per una rilettura attualizzata della parabola dei talenti è opportuno non perdere di vista il suo punto focale: il contrasto tra i primi due servi e il terzo.
Il tono del messaggio che l’evangelista suggerisce è piuttosto severo per non dire tragico. Egli vuole togliere ogni alibi ai suoi lettori o ascoltatori cristiani di fronte alla responsabilità di agire con decisione e coraggio. Alla fine essi saranno accolti nella comunione con il loro Signore o esclusi e condannati alla rovina definitiva in base alla loro risposta attiva ai doni ricevuti.
Quello che è determinante è l’impegno attivo. E questo dipende dalla relazione di fiducia che si ha con il Signore. Infatti viene condannato inesorabilmente il servo fannullone che è come paralizzato dalla sua paura. Quello che manca nel suo caso è la relazione di fiducia che mette in moto la responsabilità creativa e attiva.
In questa prospettiva della parabola tutta centrata sull’incontro finale è fuori luogo e inutile chiedersi in che cosa consistano i “talenti”: sono doni naturali? E’ la chiamata alla fede? Sono dei compiti ministeriali nella comunità? Quello che interessa è la risposta attiva e responsabile dei singoli.
E’ da notare infine che non esiste una vera proporzionalità tra il rendimento dei primi due servi e la loro ricompensa. Essi ricevono lo stesso trattamento. Come i “talenti” ricevuti in affidamento, così anche il premio esorbitante alla fine da parte del Signore, restano nell’ambito della gratuità. Si tratta però di una gratuità che impegna, perché si alimenta alla relazione di fiducia dei credenti nel loro Signore.
Impossibile vivere di rendita
La fede non è un oggetto prezioso da conservare così com’è, ma una realtà viva, come una pianta, che domanda cure continue e attenzione costante. Non far nulla al proposito non significa mantenere quello che si ha, ma perdere tutto. Il racconto comincia nel segno della fiducia: quell’uomo che parte deve averne tanta se mette nelle mani dei suoi servi un vero tesoro. E questa fiducia è determinante perché è proprio essa che genera una risposta attiva e operosa. Il servo fannullone dimostra il contrario della fiducia, cioè la paura. Ha paura del dio immaginato severo ed esigente, in vece Dio ha piena fiducia in lui, perché Amore e Misericordia, che desidera la felicità per tutti i suoi figli.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: SdP, 2023, Laurita, 2023.