La parabola del “Padre misericordioso” (Lc. 15, 11-32) riveste nel vangelo di Luca e nella predicazione della chiesa una grande importanza. Papa Francesco ha voluto ricordare alla chiesa di oggi che “misericordia” è il nome di Dio.
La vicenda inizia con la richiesta del figlio più giovane: “Padre, dammi la parte di eredità che mi spetta” (v. 12). La richiesta viene riportata senza nessun giudizio morale e il padre stesso la accoglie: “Ed egli divise tra loro le sue sostanze” (v. 12). Da questo momento, la parabola si focalizza sulle conseguenze di questa decisione del figlio: le sue ricche vesti e la nobile cavalcatura lasciano il posto agli stracci e infine alla nudità di colui che ha perso tutto vivendo da dissoluto. Il figlio nobile e bello dell’inizio è quasi irriconoscibile nella misera figura circondata da porci, che da uomo libero ora diventa schiavo.
Con l’essere diventato guardiano dei porci, la vicenda del figlio minore tocca il suo punto più estremo, dove incontriamo la svolta e il monologo segna l’inizio del ritorno. “Ritornò in sé stesso” (v. 17) indica la necessaria presa di coscienza della propria condizione, non necessariamente un pentimento vero e proprio, che nemmeno le parole del discorso preparato dal figlio sembrano contenere. Difatti, questo discorso non verrà pronunciato per intero: l’iniziativa del padre precede e supera, rendendo superflua ogni richiesta e giustificazione. Il vestito bello nuovamente ricevuto dal padre è infine il segno della sua rinnovata identità di figlio.
Appena conclusa la vicenda del minore, ecco che il figlio maggiore compare sulla scena: egli “si trovava nei campi” (v. 25), particolare che sottolinea la diversità di destino dei due fratelli, la lontananza dell’uno e la vicinanza dell’altro alla casa del padre. Con il ritorno del fratello minore, egli è messo di fronte al fatto compiuto, per cui non gli resta che accettare o ribellarsi: “si indignò e non voleva entrare” (v.28).
Secondo la logica retributiva colui che ha sprecato l’eredità non ha più diritto a nulla, diversamente da chi ha servito con fedeltà. La rabbia del figlio maggiore e il suo rifiuto a entrare a far festa derivano dal constatare che il padre non ha agito con giustizia, secondo la logica universalmente accettata del dare-avere. La generosità del padre è percepita come un torto ingiustamente subito e il lettore non può che parteggiare per questa lettura dei fatti. Perché? Dove ci vuole condurre il racconto?
Se nella prima parte della storia egli scompare dietro le quinte del racconto, nel momento cruciale del ritorno del figlio minore, le sue azioni, i suoi sentimenti e i suoi valori si svelano in maniera sorprendente. Quando il figlio minore era ancora molto distante, “lo vide, si commosse e correndo gli si gettò al collo e lo baciò con affetto” (v. 20). I verbi del testo originale sono carichi di significato: “si commosse”, che in greco contiene un riferimento alle viscere (materne) di misericordia, e l’intensivo di “baciare” a indicare la tenerezza riversata dal padre sul figlio ritrovato.
Anche il gesto di gettarsi al collo del figlio è significativo: non è il figlio a gettarsi ai piedi, ma è il padre che essendo sopraffatto dalla commozione, in un gesto tutt’altro che ieratico e quasi barcollando si sbilancia tutto verso il figlio.
La sua logica è totalmente diversa da quella che hanno in comune i due figli: per entrambi, infatti, il padre è un datore di lavoro e la logica che li guida è quella della retribuzione. Al contrario, per il padre la figliolanza non dipende dal merito: così il ritorno del prodigo ha un valore assoluto, che non fa conto delle circostanze né delle motivazioni. “Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24): l’aver ritrovato il figlio perduto, l’averlo riavuto vivo è il motivo del suo agire eccessivo e della festa e non ve n’è un altro.
Egli non contesta neppure la logica retributiva del figlio maggiore, ma mostra un’altra logica (“tutto ciò che è mio è tuo” v. 31), contraria a qualsiasi calcolo, e rivela una necessità superiore (“bisognava fare festa e rallegrarsi” v. 32), quella di realizzare il piano divino. Nell’ultimo discorso del padre, il figlio ora è detto “tuo fratello”: per comprendere la logica del padre, per entrare in relazione con lui, è necessario riconoscere l’altro come fratello e sorella.
Questo è il messaggio finale della parabola, ma il racconto rimane aperto. Questa parabola è per ciascuno di noi che siamo chiamati oggi a dare una risposta, quella difficile del fratello maggiore. Il finale aperto contiene una possibilità, la possibilità di scegliere tra la libertà dei figli che si riconoscono amati da Dio e la logica calcolatrice dei servi. Il racconto vuole condurci qui, alla necessità di dare una risposta di fronte all’annuncio della buona notizia di Cristo Gesù: “E beato è colui che non trova in me motivo di inciampo!” (Lc. 7, 23).
Raccontando questa parabola, Gesù ha voluto rivelarci il “suo” Dio, il “vero” Dio, un Dio che rispetta la nostra libertà. Un Dio che ci attende e ci corre incontro quando torniamo. Un Dio disposto a dimenticare le offese ricevute. Un Dio che si rallegra perché temeva per la nostra “morte” e che è pronto a darci un posto di onore nella sua mensa, un Dio per il quale conta più il futuro che il passato, e quindi non permette che rimaniamo prigionieri dei nostri sbagli.
Questo Dio, proprio comportandosi così, cerca e realizza il nuovo. Perché nuova è la compassione, nuovo è il perdono, nuova è la gioia che viene offerta. E tutti questi costituiscono motivi validi per fidarsi di lui e per mettere la nostra vita nelle sue mani.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mino, 2022; Laurita, 2022.
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