Religione

La parabola del Padre misericordioso

Agli scribi e ai farisei, persuasi che l’osservanza della Legge imponga di vivere separati rispetto ai peccatori, Gesù rivolge tre parabole (Lc. 15) in risposta alle accuse che essi gli muovevano per avere accolto peccatori e aver condiviso la mensa con loro, infrangendo la regola della purità.

Le tre storie, della pecora smarrita, della moneta perduta e del figlio prodigo, sono note come le “parabole della misericordia”. A ben vedere, però, c’è un tratto ancor più esplicito che accomuna le tre parabole, ed è la gioia.

C’è più gioia in cielo

Gesù, come il pastore, si è posto alla ricerca della pecora perduta per ritrovarla, porsela in spalla e ricondurla all’ovile; come la donna, non ha smesso di cercare fino a quando non ha recuperato coloro che vivevano lontani da Dio. Per questa ragione occorre far festa, celebrare la gioia del ritrovamento con un banchetto al quale sono invitati gli amici e i vicini: cioè, quegli scribi e farisei che contestano lo stile inclusivo del Maestro.

Gesù li invita a mettere in discussione non la loro integrità di vita, ma la loro immagine di Dio: il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. La gioia, pertanto, è la reazione che Dio prova quando un peccatore si converte; è una letizia che egli non trattiene per sé, ma che intende condividere.

La gioia del Padre

La terza parabola, quella del Padre misericordioso, è incentrata sulla figura del figlio minore, che decide di affrancarsi dalla potestà paterna; chiede di poter usufruire in anticipo dei beni che gli spettano in quanto erede del Padre, e così decide di partire.

Nulla è detto circa la ragione che ha indotto il più giovane dei figli ad abbandonare la casa paterna. Il seguito del racconto lascerebbe supporre che si tratti del desiderio di libertà per sottrarsi agli oneri derivanti dalla permanenza nella casa del Padre.

Una libertà dal Padre che ha delle amare conseguenze: il denaro a sua disposizione termina presto a causa dello sperpero che egli ne fa, e il ragazzo deve correre ai ripari, anche perché una carestia si abbatte sul luogo dove egli si trova e deve affrontare la fame e l’indigenza. Non è stato saggio: non ha messo a frutto i beni ricevuti, ma li ha consumati. La miseria lo spinge a mettersi a servizio di un uomo straniero che lo manda a pascolare i porci.

Non manca un pizzico di ironia nel descrivere la sua attuale condizione: a casa del Padre poteva anche avere la percezione di essere schiavo degli obblighi paterni, ora lo è a tutti gli effetti! Non può neanche rivendicare il cibo, perché neppure le carrube gli vengono offerte, perché destinate a sfamare i porci.

Quando ha toccato il punto più basso della sua dignità, il ragazzo si ravvede e decide di tornare a casa, non prima però di aver preso coscienza dei suoi errori. Mentre è ancora sulla strada del ritorno, il Padre, che non ha mai smesso di attendere il suo ritorno, gli corre incontro e lo abbraccia; ascolta la sua ammissione di colpa e decide di bandire una festa. E’ tornato il figlio perduto; non ha mai smesso di essere suo figlio, e i calzari ai piedi, la veste nuova e, soprattutto, l’anello sono simboli della ritrovata dignità filiale.

La tristezza del figlio maggiore

Il figlio maggiore è stato menzionato solo all’inizio del racconto: senza volerlo, ha beneficiato della richiesta del fratello minore, e ha ottenuto la parte di eredità che gli spettava. Tuttavia, continua a lavorare; non cede alle tentazioni dei bagordi come invece ha fatto il più giovane.

Quando rientra dai campi, s’informa di ciò che sta accadendo all’interno della casa e decide di non voler entrare: è indispettito per il ritorno del fratello? E’ adirato col Padre perché non ha severamente punito il figlio ribelle? L’interesse del racconto, però, verte sul dialogo tra il figlio maggiore e il Padre: il primo si mostra risentito nei confronti del Padre non per l’accoglienza riservata al minore, ma per tutto ciò che egli ritiene di non aver ricevuto da lui nonostante il suo fedele servizio.

Si relaziona con il Padre come fa uno schiavo con il suo padrone; vive una relazione servile, anziché filiale. Non accetta che il minore venga accolto in maniera così festosa dopo aver dilapidato tutto il patrimonio a sua disposizione; non lo riconosce come fratello, perché non si sente figlio di un Padre che non punisce ma gioisce per il ritorno del prodigo.

Tuttavia, nella parabola, il Padre dialoga solo con lui; solo a lui rivolge parole cariche di affetto, ricordandogli che il loro legame è basato sull’essere, “tu sei sempre con me” (v. 31), e non sul fare; ciò che appartiene al Padre, è anche sua proprietà. Tuttavia, non si può rinunciare a gioire per il ritorno del figlio perduto; la famiglia deve ritrovarsi nella gioia. Sarà disposto il figlio maggiore a varcare la soglia d’ingresso mettendosi alle spalle il suo pregiudizio e il suo risentimento?

Le parabole di Gesù hanno il merito di strapparci ai nostri ragionamenti e di metterci davanti al volto di Dio, al suo comportamento. Se mormoriamo, se gridiamo anche noi allo “scandalo” dei gesti sproporzionati del Padre al ritorno del figlio perduto, è perché non abbiamo il cuore di Dio, non siamo capaci di vibrare del suo stesso amore. Dio si comporta così perché è misericordioso: ha un cuore tenero, ha compassione delle nostre infermità, vuole restituirci alla dignità di figli suoi. Per lui ognuno è prezioso, ognuno ha un valore inestimabile. E il fatto che manchi alla sua tavola costituisce un cruccio, una sofferenza.                                                                                  

Il Capocordata.    

Bibliografia consultata: Landi, 2022; Laurita, 2022.

Redazione

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