Religione

La parabola del regno affidato a Israele: custode di un dono, perché porti frutto

La parabola del Regno affidato a Israele (Mt. 21, 33-43)

Un uomo pianta una vigna, la protegge con una recinzione, predispone un frantoio e costruisce una torre. Si tratta di un fatto ordinario, del tutto normale. L’uomo che ha profuso tante energie alla vigna, la affida a dei contadini e parte per un viaggio. Quando il padrone ritiene sia giunto il tempo della vendemmia, invia i suoi servi a ritirare il raccolto, ma i vignaioli, anziché dare i frutti, maltrattano i servi. Questa scena si ripete anche una seconda volta (v. 36). Alla fine il padrone invia nella vigna il figlio, sperando che i fittavoli abbiano nei suoi riguardi più attenzione di quanta non ne abbiano avuta con i servi. Ma i vignaioli lo cacciano fuori dalla vigna e lo uccidono (v. 39).

Gesù invita gli ascoltatori (i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo) a valutare quanto avvenuto. Essi giustamente condannano il comportamento dei fittavoli e prevedono che il padrone li farà condannare e consegnerà la vigna ad altre persone, che a tempo debito consegneranno i frutti. Il punto centrale della parabola è costituito dal contrasto fra le attese del padrone e la reazione violenta e ingiustificata dei suoi vignaioli, che giunge sino all’uccisione del figlio. E Gesù fa capire ai suoi interlocutori che la parabola non è solo una interessante storiella, ma una vicenda che illustra i fallimenti che hanno caratterizzato la storia di Israele, e li pone così dinanzi alle loro responsabilità.

La parabola è quindi un’allegoria (esempio) dei rapporti tra Dio e il suo popolo. Gesù riassume in poche battute la storia del suo popolo. Il “padrone della vigna” è Dio, che non ha mai cessato di aspettare i frutti della sua vigna. La “vigna” è il Regno di Dio, affidato in un primo tempo a Israele, in special modo ai suoi capi (scribi, farisei, sacerdoti), i vignaioli che hanno deluso il padrone e non sono stati fedeli nel rendergli i frutti dovuti. I “servi” sono i profeti, mandati da Dio a tenere desta la fede del popolo e ravvivare nei suoi capi la coscienza della responsabilità loro affidata.  

Ma questi inviati di Dio nella maggior parte sei casi sono stati rifiutati, maltrattati e uccisi. Il “figlio del padrone” è Gesù, mandato dal Padre in un estremo tentativo di salvare il popolo infedele; i capi del popolo però spingeranno al colmo la loro infedeltà comportandosi con il Figlio di Dio come si sono comportati con i profeti: lo uccideranno fuori della vigna, in segno di disprezzo.

Le conseguenze di questo racconto sono così ovvie che gli stessi uditori possono ricavarle, sollecitati dalla domanda di Gesù: “Il padrone della vigna che cosa farà a quei contadini?” (v. 40). Danno così una risposta che suona come una condanna per loro stessi, e ne sono così consapevoli che l’evangelista poco dopo nota: “Udite queste parole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (v. 45). Tuttavia, sono talmente induriti nel loro rifiuto, che anche questo appello di Gesù alle loro coscienze rimane senza efficacia e produce anzi l’effetto contrario, rendendoli più accaniti nella loro ostilità e determinazione di ucciderlo.

A noi è affidato il Regno di Dio

Cosa insegna tutto questo? Noi non siamo quel popolo e perciò non sentiamo rivolte a noi queste parole, in quanto ci identifichiamo con il popolo che farà fruttificare il regno di Dio. Sembra quindi che venga chiesto solo di prendere atto di questo cambiamento e niente di più. Si tratta però di un atteggiamento sbagliato, perché questa parabola ha anche oggi qualcosa di importante da dire.

Innanzitutto: il regno di Dio è un’opera che appartiene a Dio, è lui che l’ha introdotto in questo mondo, è lui il primo che si è preso cura e sollecitudine di esso e che poi lo ha affidato a noi, perché continuassimo la sua opera. Ne segue che non siamo i proprietari del regno di Dio, ma solo coloro che l’hanno ricevuto in affidamento. In altre parole, siamo i custodi della rivelazione portata alla sua pienezza da Gesù Cristo, e non i padroni; il nostro compito è quello di far fruttificare la parola di Gesù, perché la salvezza presente in essa possa raggiungere tutti.

Se Dio ha affidato all’uomo la sua opera, significa che ha fiducia in lui. Questa fiducia, se da una parte ricorda la grande responsabilità del cristiano, dall’altra è segno dell’amore di Dio per noi, un amore così grande da riporre nelle nostre mani la “via” della salvezza. E’ importante, nella conclusione della parabola, il riferimento al tempo futuro: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (v. 43). La parabola dei vignaioli omicidi è un monito che impedisce di sentirsi persone che hanno già posto un’ipoteca sulla salvezza. Se non si è disposti a restituire a Dio i frutti, si corre il rischio di essere cacciati e vedersi tolto questo grande dono.

Le promesse di Dio sono per coloro che si impegnano a portare frutto e ad aderire alla volontà del Padre, solo questa è la condizione che potrà consentire alla comunità cristiana di essere legittima amministratrice dell’eredità che ha ricevuto. La situazione di amore e di comunione, che il Signore ha realizzato con il dono totale della sua vita sulla croce, è quanto è affidato a noi come popolo, come comunità, perché il regno di Dio produca frutti. Essere popolo che vive la comunione al suo interno e sa essere accogliente verso i bisognosi con l’attitudine del dono senza alcuna pretesa di riconoscenza, ci fa essere oggi segno della presenza del regno di Dio e popolo che produce frutti di comunione e di carità.                                                                                                              

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Boscolo, 2020; Brunello, 2020.

Redazione

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