La parabola del seminatore e l’efficace parola di vita
Per tre domeniche ascolteremo alcune parabole di Gesù riportate nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo. Iniziamo oggi con la parabola del seminatore
La parabola del seminatore. Per tre domeniche ascolteremo alcune parabole di Gesù riportate nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo. Iniziamo oggi con la parabola del seminatore (Mt. 13, 1-23) e la sua spiegazione.
Una semina sovrabbondante
Il seminatore esce, semina e non si preoccupa affatto del terreno. La sua preoccupazione è uscire e seminare, come Gesù semina la Parola insegnando alle folle, nutrendole con la Parola che dà vita. C’è un profondo ottimismo che contraddistingue l’uscita del seminatore. A lui importa semplicemente gettare la semente e si fida del terreno benché non sempre sia favorevole a ricevere quel seme. La parabola mette in luce che ci sono vari tipi di terreno, i quali convivono tutti dentro di noi: sassi, rovi, uccelli del cielo che mangiano il seme caduto in superficie, sole che brucia il piccolo germoglio senza radici. Il racconto di Gesù, tuttavia, evidenzia anzitutto la speranza che il seminatore ha, vale a dire che la sua semente faccia un frutto abbondante.
Il Vangelo è una buona notizia, annuncio di un Dio che non si stanca di seminare, di parlare, di attirarci a sé. Un Dio che non si ferma affatto davanti al peccato, alla durezza di un terreno che non lo accoglie, all’indifferenza e persino alla contrapposizione che la fede può generare. Un Dio che non si stanca nemmeno delle critiche, del sarcasmo, della persecuzione, ma continua a seminare. Egli getta quel seme perché lo vuole, nella speranza di trovare una terra che lo accolga, un grembo ospitante che riesca a ripetere il miracolo della fecondità.
Il seminatore propone uno stile alternativo
Non è uno stile economico, che condiziona la semina alla produzione effettiva della terra: se dà frutto, allora continuo. Al contrario, prima c’è la semina abbondante, continua, quotidiana, al di là delle risposte, al di là dei criteri di produzione. Gesù semina e richiede quello stile di vita alternativo che evidenzia un ascolto della Parola di Dio che possa guidare, seriamente e con autenticità le mie scelte, affinché la carità e l’amore possano dissodare la mia terra e renderla capace di bene.
Da anni si parla di educazione: si pensa sempre che debbano crescere gli altri, che siano gli altri a dovere portare frutto. Per una volta potremmo pensare di essere “noi”, prima di tutto, quella terra buona nella quale il bene può crescere. Diamo l’esempio, affinché una vita sobria, ordinata, attenta, fedele, corretta, possa essere un buon terreno per coloro che ci guardano e che stanno crescendo. Non diamo l’impressione che si possa vivere anche senza fede, senza regole, senza ordine.
Il seminatore non s’impaurisce se il terreno buono, dove il seme porta frutto, viene per ultimo. Il seminatore non è regolato da criteri umani, ma sparge il buon seme gratuitamente e attende che un terreno altrettanto buono lo accolga. Il seme è buono, se anche il terreno lo sarà, il risultato sarà eccellente.
Leggendo questa parabola vorrei essere un prete che semina con fiducia. Oggi c’è un po’ di scoraggiamento: tutti desideriamo vedere immediatamente i risultati. Pretendiamo una società perfetta che non siamo riusciti a costruire. Essere genitori ed educatori che credono, oltre che al seme, anche al terreno, diventa una questione di speranza. Io credo che il bene ci sia, ovunque e in tutti, e se incontra il seme della Parola può portare frutti abbondanti.
Per una comprensione “pratica” della parabola
La domanda che i discepoli rivolgono a Gesù è chiarissima: “Perché parli loro in parabole?” (v. 10), come a dire che la parabola sembra incomprensibile. E’ come se la storia del seme, di per sé molto chiara, abbia bisogno di qualcosa d’altro, di qualcun altro che spieghi, rifletta e faccia ragionare. Questa chiave di lettura è semplicemente Gesù. Non si può fare a meno di lui se si vuole essere discepoli che accolgono veramente il seme della Parola e impediscono al maligno di rubarlo dal cuore, all’inganno della ricchezza di soffocarlo, alle tribolazioni, alle sofferenze e alle persecuzioni di creare un “ostacolo” che non gli permette di portare frutto.
Quel Gesù, che sta parlando ai discepoli e che oggi parla a noi, è colui che dona la capacità di ascoltare la Parola e di comprenderla. Questo “comprendere” siamo invitati a interpretarlo come un “mettere in pratica”, un “decidere” per il Signore. Un ascolto lontano dal cuore o una semplice comprensione cognitiva non sono sufficienti per pensare che quel seme possa scendere in profondità. Si corre così il rischio di illudersi di “avere ed essere nell’abbondanza” (v. 12) quando, invece, Gesù sottolinea la triste possibilità di sentire, ma di non comprendere affatto, di vedere, ma di non capire. Si è davanti a un “mistero”, ma chi non si dispone ad accoglierlo come “di Dio” non saprà e non potrà convertirsi.
“Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono” (v. 16). Mettersi ai piedi di Gesù, ascoltare la sua Parola con autenticità, permettere che essa entri nelle nostre vite, è un momento di verità e di onestà. Se iniziamo in questo modo e prendiamo sul serio la sua Parola, quel seme può incontrare tratti di terra buona e produrre frutto, in abbondanza.
La Parola di Dio proclamata nella celebrazione domenicale cosa trova dentro di noi? Abitudine, disincanto e noia? Indifferenza sbadata, mancanza di coinvolgimento e di partecipazione? Affanno, corsa, incapacità di fare sintesi, di trovare punti di riferimento? Oppure: la comprensione del cuore, lasciarsi risvegliare e provocare nel profondo dalla Parola: accostarla ogni volta come dei principianti, vulnerabili e sorpresi?
Il Capocordata
Bibliografia consultata: D’Agostino, 2020; Orizio, 2020.