La parabola delle dieci vergini (Mt. 25, 1-13) si svolge in tre fasi: quella della preparazione, quella dell’attesa e infine l’incontro con lo sposo. Una sentenza conclusiva in forma di esortazione chiude la narrazione della parabola. In tal modo la parabola delle dieci vergini viene inserita nel clima del discorso “escatologico” (il fine della storia) che raccomanda l’attesa vigile e responsabile della venuta ultima del Figlio dell’uomo.
Nella prima parte si richiama l’attenzione sulla diversa attitudine delle dieci vergini, in base alla quale esse sono collocate in due gruppi contrapposti: “Cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (v. 2). Questa distinzione si fonda sul fatto che le vergini stolte prendono con sé le lampade per andare incontro allo sposo, ma non si forniscono della riserva dell’olio per alimentarle. Invece le sagge, “insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi” (v. 4). Questo fatto è decisivo nel momento dell’incontro con lo sposo nel cuore della notte.
L’incontro è preceduto da un’attesa che si prolunga perché lo sposo tarda a venire. Così tutte le dieci vergini si mettono a dormire. Le risveglia il grido che si leva a mezzanotte: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!” (v. 6). Questa scena centrale è dominata dal dialogo concitato tra i due gruppi di ragazze che cercano di preparare le loro lampade.
Solo a questo punto il gruppo delle cinque vergini stolte si accorge di essere senza la riserva dell’olio necessario per alimentare le loro lampade. Esse allora dicono alle vergini sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono” (v. 8). La risposta di queste ultime è un rifiuto netto e motivato: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene” (v. 9). A una valutazione moralistica della parabola questo atteggiamento del gruppo delle sagge può apparire scortese e la sua motivazione egoistica.
Di fatto nella struttura drammatica della parabola questa situazione, provocata dalla “insipienza” delle cinque ragazze, le fa escludere dal corteo dello sposo e alla fine dalla festa nuziale. Infatti mentre esse vanno a comperare l’olio arriva lo sposo e le “vergini che erano pronte” (v. 10) entrarono con lui alle nozze. La frase conclusiva di questa scena, “e la porta fu chiusa” (v. 10), fa presagire la sorte riservata al gruppo di ragazze che sono andate a cercare l’olio nella notte.
Esse arrivano troppo tardi. Inutile è il loro tentativo di farsi aprire. Alla loro richiesta insistente: “Signore, Signore, aprici!” (v. 11), si contrappone la sentenza finale introdotta dalla formula solenne distintiva delle parole di Gesù: “In verità io vi dico: non vi conosco” (v. 12).
Il dialogo di quest’ultima scena è la chiave di interpretazione dell’intera parabola. Le parole di esclusione, messe in bocca allo sposo, sono quelle che il Signore dirà a quelli che fanno leva sulle loro qualità carismatiche e attività taumaturgiche (aver fatto i miracoli) per avere un giudizio favorevole (cfr. Mt. 7, 22-23).
In questo caso l’esclusione dipende dal fatto che quei discepoli si richiamano solo a parole al “nome” del Signore. Essi sono assimilati agli operatori di iniquità, perché non hanno compiuto la volontà del Padre, unica condizione per entrare nel regno dei cieli. L’affinità della nostra parabola con la piccola scena di “giudizio” a conclusione del discorso della montagna, è confermata dal ricorso al linguaggio sapienziale nelle due successive similitudini della costruzione.
Colui che ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica è “simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia”. A esso si contrappone colui che ascolta le parole di Gesù e non le mette in pratica. Egli è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia (Mt. 7, 24.26).
Il confronto della parabola delle dieci vergini con questo testo di Matteo fa capire che gli appellativi “stolto” e “saggio” dipendono dall’attuazione o meno della volontà del Padre. In altri termini non basta l’accoglienza della parola di Gesù o la professione verbale della fede. Al momento dell’incontro finale con il Signore, è decisiva l’attuazione della fede, quella che il vangelo chiama le “opere buone”.
Sulla base di questa interpretazione di fondo suggerita dal vangelo stesso, si chiariscono anche gli altri particolari della parabola che hanno un ruolo allegorico (simbolico) in chiave parenetica (esortativa). Tutte le ragazze invitate all’inizio hanno le lampade accese. E’ il ritardo dello sposo che rende critica la situazione, ma solo per quelle che non hanno predisposto la riserva dell’olio. Se questa coincide con le “opere buone”, quelle che concretizzano la fede nel Signore, si capisce che non è possibile contare sul “prestito” degli altri. In altri termini non è possibile far valere un’attuazione della fede “per delega”. La parabola non raccomanda solo un’attesa del Signore “vigile” che corrisponde alla fede operosa, ma anche un’attesa “responsabile”. Si tratta di una responsabilità personale e indivisibile.
Siamo tutti interpellati personalmente e ognuno è rinviato alla propria responsabilità. Il Regno dei cieli non è destinato a chi è privo di consistenza, incapace di riflettere seriamente sulla realtà e di prendere le decisioni opportune. Il regno dei cieli non è neppure per i distratti, per quelli che si lasciano attirare da particolari di poca importanza e mancano di ciò che è essenziale. E’ questo il momento della salvezza! Accogliamolo senza ritardare ulteriormente la nostra risposta, la nostra conversione.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: SdP, 2023; Laurita, 2023.
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