In tutti i vangeli il racconto della passione (Mt. 26, 14-27, 66) rappresenta la conclusione e l’apice della vicenda terrena di Gesù, il momento in cui egli porta al suo supremo compimento la missione profetica ricevuta da Dio Padre in un modo inaspettato per gli stessi discepoli che l’hanno seguito fino a Gerusalemme.
L’evangelista Matteo sottolinea con particolare attenzione i riferimenti all’Antico Testamento a cui la vicenda di Gesù si ricollega. Rivolgendosi a una comunità giudeo-cristiana, l’evangelista mostra che l’evento Gesù è l’adempimento delle Scritture. L’intento di adempiere le Scritture è esplicitato nel testo, in reazione ai discepoli che volevano impedire il suo arresto con la forza: “Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (26, 54).
Gesù non è passivo di fronte alla morte, né si sottomette controvoglia a un destino ineluttabile. Tutto ciò che avviene rientra nel progetto di Dio, a cui egli aderisce pienamente e con convinzione. Nel momento supremo della sua esistenza, Gesù si dà tutto al Padre, in un atto di pieno abbandono a lui. Le Scritture sono state la pedagogia di Dio per annunciare e realizzare la salvezza dell’uomo; ora Gesù sa che questa salvezza passa attraverso il suo sì e lo pronuncia fino in fondo.
Il personaggio di Giuda riceve una particolare attenzione da parte dell’evangelista Matteo. Infatti solo lui riporta la scena del suo tragico suicidio (27, 3-10). Resosi conto delle conseguenze della sua azione, Giuda restituisce il denaro e si impicca, la mattina stessa del Venerdì santo, quindi senza attendere la conclusione dei fatti. A differenza di Pietro, che si è pentito e piange (26, 75), Giuda decide di farsi giustizia da sé.
Come in modo autonomo ha deciso il tradimento, così in modo autonomo decide anche la propria punizione. Se Pietro ha rinnegato Gesù in un momento di debolezza e paura ma manifesta un legame affettivo con lui, Giuda emerge come un individuo isolato, che gestisce la propria vita e formula le proprie scelte a prescindere dal Maestro. Dunque la colpa di Giuda è duplice: non ha creduto nella sua misericordia e, pur riconoscendolo innocente, non si è fidato dei suoi annunci sulla propria risurrezione.
Gesù, il vero profeta perseguitato e il re Messia è fonte di riconciliazione e di unità: il campo comprato con il denaro offerto per spargere il sangue di Cristo verrà utilizzato per la sepoltura degli stranieri, probabilmente pagani; con il simbolo del campo l’evangelista dichiara che il sangue di Cristo diventa fonte di salvezza per tutti, anche al di fuori del popolo ebraico.
Il processo di fronte a Pilato è descritto dall’evangelista Matteo con toni drammatici ed è presentato come il confronto-scontro ultimo tra il Messia e il mondo giudaico che non l’ha riconosciuto. L’evangelista, che proviene da quel popolo e indirizza il suo vangelo a una comunità proveniente da esso, manifesta la drammaticità di una tensione che anch’egli e i suoi destinatari sperimentavano.
Durante il processo la moglie di Pilato fa giungere al marito un appello per la liberazione di Gesù, poiché era rimasta turbata “in sogno” a causa di “quel giusto” (27, 19). La moglie di Pilato riceve in sogno la rivelazione della giustizia di Gesù e invita il marito a non rendersi responsabile della sua condanna. Il contrasto con l’incredulità della folla di Gerusalemme è evidente e l’effetto ironico assume contorni tragici.
Un dettaglio proprio del vangelo di Matteo è l’atto di lavarsi le mani da parte di Pilato (27, 24). Pilato afferma la propria disapprovazione personale davanti alla scelta in favore di Barabba; ma con quel gesto pubblico esprime la sua distanza interiore. Il gesto non ha alcuna rilevanza giuridica: la responsabilità politica della condanna ricade tutta su Pilato; tuttavia l’evangelista intende in questo modo sottolineare la drammaticità della richiesta compiuta da quello che era il popolo eletto, ma non ha saputo riconoscere il Messia a lui inviato.
La dichiarazione pronunciata dalla folla: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (27, 25), è paradossalmente ironica. Essa esprime l’assunzione di responsabilità riguardo all’uccisione di una persona. La frase è estremamente forte e sembra coinvolgere nell’uccisione di Gesù tutto il popolo ebraico anche dei tempi successivi, e così purtroppo è stata spesso intesa, con esiti tragici per la storia dell’umanità. Tuttavia, anche alla luce della simbologia del campo di sangue dove avviene il suicidio di Giuda, dobbiamo anche qui riconoscere un’allusione al valore redentivo del sangue di Cristo.
Senza saperlo, il popolo di Gerusalemme, condannando Gesù, permette la redenzione del mondo; assumendosi la responsabilità della sua uccisione di fronte al gesto polemico di Pilato, inconsapevolmente invoca su di sé anche la forza redentrice del suo sangue, per sé stessi e per i propri discendenti. L’evangelista esprime in queste parole l’auspicio che il tragico rifiuto del Messia possa diventare sorgente di salvezza e di misericordia anche per coloro che non sono stati in grado di riconoscerlo e, con il loro rifiuto, hanno paradossalmente consentito alle Scritture di adempiersi fino in fondo.
L’evangelista Matteo riporta due ultimi fatti che meritano una considerazione: gli effetti immediati della morte di Gesù (27, 51-53). Allo squarcio del tempio aggiunge un terremoto che causa la frantumazione delle rocce e l’apertura di alcuni sepolcri: i corpi di molti “uomini santi” risuscitano. L’evento ha carattere simbolico e annuncia l’inizio del mondo nuovo inaugurato dalla redenzione di Cristo. Gesù è il primo dei risorti, mentre gli uomini possono partecipare alla sua vittoria solo in unione con lui e dietro di lui.
Inoltre, Matteo riferisce la presenza presso il sepolcro di guardie che poi assisteranno tramortite all’apparizione dell’angelo alle donne (28, 4) e si recheranno presso i capi dei sacerdoti per narrare l’accaduto (28, 11-15). La presenza di guardie al sepolcro ha lo scopo di evidenziare la potenza della risurrezione, che si verifica nonostante i tentativi umani di nasconderne i segni e gli effetti. Il sigillo sul sepolcro, che doveva prevenire il furto del corpo da parte dei discepoli, diventa un’ulteriore conferma della risurrezione.
Il capocordata.
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