La pazienza infinita di Dio
La pazienza di Dio non è finita e a noi è data la possibilità di tornare a Dio, di convertirsi dal male, per fiorire e dare frutto
Due fatti di cronaca “nera” (Lc. 13, 1-9)
Alcune persone riferiscono a Gesù di alcuni fatti drammatici occorsi in quei giorni a Gerusalemme: “…di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici” (v. 1), e l’altro fatto, questo riportato da Gesù stesso, “di quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e li uccise” (v. 4). L’intervento di Gesù sposta l’attenzione dal “fatto di cronaca” alla sua interpretazione, offrendo una propria lettura dei fatti: “Credete forse …? No, io vi dico” (vv. 2-5).
Secondo la mentalità comune, un destino avverso è sempre la conseguenza diretta di una colpa; questa è la prospettiva legalistica sostenuta da scribi e farisei, una visione del mondo capace di spiegare tutto: il male e il bene, la vita e la morte. E’ la logica della retribuzione, a cui Gesù si oppone fermamente, invitando a guardare oltre, ad alzare lo sguardo. Da nord a sud, dalla Galilea delle genti fino alla capitale Gerusalemme, patria dell’ortodossia religiosa, non mancano eventi drammatici che inducono a riflettere sul destino dell’umanità.
Non è il cadere vittima di una morte violenta oppure lo sfuggire a essa a segnare la sorte dell’uomo e della donna, ma il nostro essere peccatori, radicalmente debitori di fronte a Dio. Il tema del peccato, come debito nei confronti di Dio, ha già trovato in Luca la sua più efficace rappresentazione nella scena della peccatrice perdonata, in casa di Simone il fariseo. Attraverso una parabola, “Un creditore aveva due debitori…” (Lc. 7, 41), Gesù conduce a termine il confronto tra i due protagonisti, entrambi debitori, entrambi incapaci di restituire il debito; così è ogni uomo e donna di fronte a Dio.
Davanti a questa realtà, Gesù ha parole forti: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (vv. 3.5). La conversione, il ritornare a Dio con tutto il cuore e nella verità, è ciò che fa la differenza, come insegna la storia della donna, in casa del fariseo Simone, che ha molto amato: “La tua fede ti ha salvata, và in pace” (Lc. 7, 50).
La parabola
Nel Vangelo di Luca spesso le parabole intervengono a illustrare ciò che il narratore ha già raccontato attraverso una storia o un discorso di Gesù. Tuttavia esse non fungono da semplice “cartolina”, ma impegnano il discepolo in una dinamica di conversione di fronte all’evidenza di una scelta che si pone. Una parabola è sempre un evento di comunicazione nel quale il lettore prima o poi deve scegliere da che parte stare.
Il protagonista della parabola è “un tale” (v.6): la definizione generica è un espediente che favorisce l’identificazione, ma al tempo stesso è un modo di nascondere l’identità reale, storica, del soggetto. Qui “il tale” è Dio, il Signore di Israele. Il riferimento alla vigna, “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna” (v. 6), un motivo caro alla letteratura profetica (Is. 5, 12), lo conferma. Chi possiede la vigna è il Signore; il simbolo dell’albero di fico offre maggiori opportunità di interpretazione e di identificazione.
E’ la pianta difficile, i cui frutti vanno custoditi con cura perché non si perdano. Mangiare dei suoi frutti, nei profeti, è simbolo della pace (shalom) concessa da Dio. Il Signore si attende di gustare i frutti della sua vigna, la sua attesa è legittima, “ma non ne trovò” (v. 6). Da qui la decisione, seguita dalla motivazione: “Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” (v. 7).
Benché la vicenda segua una logica inoppugnabile, noi parteggiamo per il fico. Fortunatamente l’albero trova chi prende le sue difese. Nella parabola il ruolo del mediatore è svolto dal vignaiolo; grazie alla sua iniziativa, la sorte del fico potrà essere diversa dalla morte. Nelle sue semplici parole leggiamo la pazienza di colui che, dopo aver lavorato la terra, sa attendere il frutto. Il vignaiolo è senza dubbio Gesù; nel suo ministero lungo tre anni egli si è preso cura del popolo, con le parole e con le opere ha annunciato e reso presente il regno di Dio, liberando gli oppressi e intercedendo per i peccatori.
Nel lamento di Gesù sopra la città di Gerusalemme (19, 41) avvertiamo tutta l’urgenza della sua missione e, nella vicenda del Cristo, esso assume il senso di un appello accorato. Un “cantico d’amore per la vigna”, parola appassionata che dice la presenza di un Dio che salva nel suo Figlio fatto uomo. Grazie a lui, oggi è ancora tempo di grazia, la pazienza di Dio non è finita e a noi è data la possibilità di tornare a Dio, di convertirsi dal male, per fiorire e dare frutto.
Quell’albero di fico sono io, sei tu, che non abbiamo scuse perché il tempo della salvezza è già venuto, Dio si è rivelato una volta per tutte e noi lo abbiamo conosciuto: è tempo di fiorire, è tempo di dare frutto. Dio crede in ciascuno di noi: nessuno è da scartare o da buttare. Il tempo di Dio è l’anticipo, Dio ama per primo, ama in perdita, ama senza condizioni. Amore che conforta e incalza: “ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare” (Rilke).
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mino, 2022; Marson-Gradzki, 2022.