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La porta stretta del Paradiso

In questa domenica, XXI del Tempo ordinario, la liturgia eucaristica propone alla nostra meditazione la parabola della “porta stretta” (Lc. 13, 22-30). Prima di affrontarne il commento, riteniamo indispensabile analizzare i molteplici problemi letterari che il brano ci presenta. La parabola della porta trovata chiusa è inserita all’interno del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, lo schema redazionale dovuto in parte all’evangelista Luca, che costituisce la sezione centrale del suo Vangelo.

La parabola della “porta stretta”
La maggior parte degli autori che studiano i Vangeli concordano nel dire che l’evangelista Luca ha trovato questi brani già costituiti in un sol blocco nella sua indagine documentaria e l’ha riportata, senza grossi cambiamenti, così come l’aveva scoperta. Ci troviamo di fronte a diversi “detti” di Gesù che mettono insieme molte immagini diverse, portando alla formazione di una nuova parabola, quella della “porta stretta”. Una parabola nuova nasce dalla predicazione e dalla preghiera, dalla catechesi e dal culto delle prime comunità cristiane. Il genio letterario di Luca non è inferiore alla sua fedeltà rigorosa verso le fonti storiche. Tuttavia, questi ritocchi redazionali di Luca rimangono accessori nel nostro passo: è come se l’evangelista abbia messo in ordine dei piccoli pezzi di carta male allineati.

Il commento
Durante il suo viaggio verso Gerusalemme, camminando per città e villaggi, un tale gli chiese: ”Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v. 23). L’interlocutore ci rimane sconosciuto, ma le sue parole esprimono il rispetto verso il maestro che vede in Gesù. Il problema di sapere il numero degli eletti era un problema che veniva dibattuto nei circoli dei rabbini e dei dottori della legge. Naturalmente questo tale pensava agli eletti suoi compatrioti giudei, perché difficilmente avrebbe potuto supporre che anche i pagani potessero aver parte alla vita eterna. La salvezza è l’unico problema serio dell’uomo, che si sa perduto perché mortale e peccatore. Per la Bibbia, all’uomo è impossibile salvarsi: tutti veniamo salvati per l’amore gratuito del Padre. E’ quindi vero che la porta è strettissima, perché nessuno si salva. Ma è anche larghissima, perché tutti veniamo salvati.

“Sforzatevi di entrare per la porta stretta…” (v. 24). Gesù si rifiuta di dare una risposta teorica: in genere non entra mai nelle opinioni o congetture sui misteri della prescienza divina, come fanno i rabbi (maestri) ordinari. Alla domanda dello sconosciuto, Gesù sostituisce l’affermazione del dovere pratico, perché è più importante sapere quello che bisogna fare per trovarsi nel numero degli eletti e agire di conseguenza. Il verbo “sforzatevi” implica perfino l’idea della lotta e del combattimento: è lo sforzo a cui siamo chiamati per entrare nella porta stretta che garantisce l’accesso alla sala del banchetto celeste (la felicità eterna del Paradiso). La salvezza è un dono, costa solo la fatica di aprire il cuore e la mano per accoglierlo. Ma è una grande lotta, perché il cuore è duro e la mano rattrappita. Il dono non toglie l’iniziativa: bisogna fare come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende da Dio.

La salvezza ha come porta l’umiltà: va lasciato fuori il protagonismo dell’uomo. Convertirsi è la morte dell’Io e della sua perizia, per vivere di Dio e della sua grazia. Per questo la più grande conversione è riconoscere il proprio peccato: questa è la porta più stretta che ci sia per il giusto; se il peccatore ci scivola dentro naturalmente, il giusto, più si accanisce ad accrescere il suo bagaglio di giustizia, più ne è impedito.

“Signore, aprici!” (v. 25). Nessun ritardo è ammesso, anzi nessuna esitazione, perché non solo c’è calca, ma la porta stretta potrebbe diventare chiusa. Fin d’ora i ritardatari raffigurano i giudei dei versetti seguenti, che non avevano accettato Cristo, che non avevano colto la possibilità offerta loro di entrare nel Regno, nella sala del banchetto. Inutile sarà il loro insistere presso il padrone, perché ignorare perfino l’origine di qualcuno, significa non conoscerlo assolutamente.

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza…” (v. 26). Quelli che sono rimasti fuori proclamano i titoli che ritengono più efficaci per ottenere di essere ammessi alla sala del banchetto: i giudei sono stati concittadini e familiari del padrone di casa, hanno goduto della familiarità, anzi dell’intimità, che implica un pasto consumato insieme. Inoltre, Gesù ha insegnato nelle loro piazze. Ma a nulla serve aver conosciuto intimamente Gesù, averlo inteso esporre la sua dottrina, se il suo insegnamento non è stato messo in pratica.

“Allontanatevi da me…” (v. 27). I giudei ritardatari non possono prendere parte al banchetto; non solo: essi vedono all’interno del palazzo uomini venuti dai quattro punti cardinali. Ci troviamo di fronte al rovesciamento di quanto i giudei avevano sperato e intravisto: non tutto Israele sarà salvato; alcuni pagani, invece, saranno ammessi nel regno di Dio. La salvezza è offerta tanto ai vicini quanto ai lontani che ascoltano. Se gli uni rifiutano, essa si rivolge agli altri. In questo modo nasce il nuovo popolo, che Dio ha raccolto “da tutti i paesi, dall’oriente e dall’occidente, dal settentrione e dal mezzogiorno” (v. 29).

“Vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v. 30). Ci troviamo di fronte ad un autentico rovesciamento delle precedenze. Gesù paragona l’insieme dei giudei, soprattutto dopo la sua venuta, all’insieme dei pagani. Nel considerare questi due gruppi, egli annunzia che alcuni pagani (gli ultimi) daranno salvati prima di alcuni giudei (i primi). Tuttavia, nella nostra sentenza conclusiva, le categorie non sono espresse in maniera assoluta. Non è possibile prendere l’enunciato alla lettera e applicarlo indistintamente a tutti gli individui, come se tutti coloro che sono stati i primi nella chiamata di Dio dovessero occupare l’ultimo posto nel Regno. Nel giudizio finale, tuttavia, gli impenitenti saranno rigettati, mentre gli uomini degni dei patriarchi e dei profeti, indipendentemente dalla loro origine, si vedranno ammessi nel regno di Dio.

Dunque, in questa lotta per entrare nella porta stretta, il primo della fila diviene l’ultimo per due motivi: sia perché colui che dà il biglietto d’ingresso ha il suo sportello in fondo alla coda, sia perché chi si crede a posto, è l’ultimo a sentire il bisogno di convertirsi. L’ultimo invece diviene il primo, per gli stessi due motivi: è oggettivamente più vicino a colui che si è perduto per tutti; inoltre, riconoscendosi peccatore, è il primo a convertirsi.

Bibliografia consultata: Seynaeve, 1974; Fausti, 2011.

Redazione

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