Per anni s’è disinvestito dalla sanità pubblica e favorito quella privata. Ora gli operatori sanitari lamentano le carenze di personale ma ancora non si corre ai ripari. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, nelle decisioni della manovra di Governo per la programmazione finanziaria, non sembra essere contemplato un potenziamento del sistema sanitario.
Due anni di attesa per una mammografia. Liste di mesi per una colonscopia. Non ci sono specialisti per gli esami istologici. Se vai dal privato in poche ore o giorni fai tutto, ma pagando salato. I problemi sono gli stessi da anni, carenza di personale medico e infermieristico, lunghe liste di attesa che pregiudicano la possibilità di cure per i pazienti e li spingono verso strutture private, facendole arricchire e indebolendo sempre di più la sanità pubblica.
È un fenomeno che con maggiore o minore gravità tocca l’intero paese, anche le Regioni che si proponevano come modello di buona gestione come la Lombardia, per non parlare dello sfascio delle regioni del sud. Il Presidente della Federazione Italiana delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere, Giovanni Migliore intervenendo al Tg1 del 28 settembre scorso ha sottolineato come la carenza di personale medico non riguardi solo gli urgentisti, ma tutte le specialità dove i professionisti sono in prima linea sovraesposti nelle prestazioni critiche.
“In Italia il personale sanitario d’urgenza viene retribuito meno e ha prospettive di carriera inferiori rispetto agli altri sistemi europei. Occorre una maggiore valorizzazione per queste figure professionali, altrimenti il rischio di perdere gli investimenti fatti nella formazione sarà inesorabile” ha affermato il Presidente.
La Regione Lazio necessita di 7 mila infermieri. Un numero cha aumenterà da qui al 2026, a causa dei pensionamenti. Il fabbisogno arriverà a quota 11mila unità. Questi i numeri presentati dal presidente dell’Opi Roma, Maurizio Zega, nell’ottobre dello scorso anno. La carenza di personale infermieristico è destinata ad incrementare ancora nei prossimi quattro anni poiché per la messa a terra del Piano nazionale di ripresa e resilienza serviranno altri 2 mila professionisti, dal momento che ci dovrà essere un infermiere di famiglia / comunità ogni 3 mila abitanti.
Il Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Roma, Stefano De Lillo ha dichiarato “Siamo molto preoccupati perchè rischiamo di far venire meno nella nostra regione, a Roma e in particolare nella sua provincia, il cardine dell’assistenza territoriale del Sistema sanitario nazionale, ovvero quello rappresentato dai medici di base, che come tanti altri sanitari sono stati gli eroi della lotta alla pandemia.”
Dei 5.000 medici in servizio fino a quattro anni fa adesso ne rimangono 4.400, il 30% dei quali andrà in pensione nei prossimi tre anni. Purtroppo attualmente nel Lazio ne mancano 440 e i corsi di formazione regionali non sono assolutamente in grado di soddisfare questa carenza. Il rischio è che, soprattutto nella periferia e in alcuni comuni della provincia aumentino le aree sguarnite.
Due anni fa i medici di medicina generale sul territorio regionale erano 4.354, oggi sono ridotti a 4.056, solo a Roma erano 2.526 e ora sono 1.982, oltre 500 in meno. I dati sono stati forniti dal presidente dell’Ordine dei medici del Lazio, Antonio Magi. Ma già la fondazione Gimbe (senza fini di lucro) aveva lanciato l’allarme in un report di quattro mesi fa. Un quadro quello in particolar modo della Città metropolitana di Roma che vede aree periferiche scoperte da uno dei servizi di base fondamentali per il cittadino.
“Nel Lazio dovrebbero essere circa 5.400 e nella capitale ce ne vorrebbero circa 2.800. Qui invece si rischia un’ulteriore riduzione del 40% dei colleghi entro il 2025 per via dei pensionamenti” specifica ancora Magi. Un quadro peggiorato con la pandemia, quando il rapporto con il paziente è diventato quasi esclusivamente digitale, tramite il telefonino, uno stress per i professionisti che si ritrovano oggi a rispondere a ogni ora del giorno e della notte a messaggini continui sui proprio smartphone. Tanti di loro stanno mollando il posto prima dell’età pensionabile.
Il Lazio è anche una delle cinque regioni che hanno il maggior numero di infermieri al di sopra dei 58 anni. Le altre sono la Lombardia, la Sicilia, la Campania e l’Emilia-Romagna
, sottolinea il Nursing Up (sindacato degli Infermieri).
Il Lazio dispone di meno professionisti sanitari rispetto a quattro regioni più piccole per numero di abitanti: solamente 20.797 a fronte dei 27.631 dell’Emilia-Romagna, dei 25.715 in Veneto, dei 22.720 in Toscana e dei 22.408 in Piemonte.
“Bisogna poi pensare che la popolazione invecchia
– sostiene Zega– e lo farà sempre di più e gli ospedali diverranno il loro solo punto di riferimento se non muterà il paradigma. Restando sui numeri, secondo la stima di Salutequità negli ultimi otto anni la regione ha perduto 1.485 infermieri. E il medesimo “laboratorio italiano” per l’analisi dell’andamento e dell’attuazione delle politiche sanitarie e sociali e per la loro innovazione, avverte: Il Lazio è la seconda regione con la quota più elevata di straordinari: 1.736 euro mensili
.”
Secondo De Lillo si corre il pericolo di investire il poco che è stato deciso sperperando i soldi in investimenti immobiliari e non per rafforzare il capitale umano dei medici. “Siano essi
medici di base, medici della continuità assistenziale o medici specialisti che possono realizzare quella rete capillare territoriale di cui una sanità efficiente e moderna ha bisogno”.
“Tutto questo- dichiara inoltre– va sicuramente a danno dei cittadini, che rischiano di avere, soprattutto nei prossimi anni, una difficoltà a reperire il medico di libera scelta e, in ogni caso, soprattutto per quelli residenti nei comuni più piccoli della provincia o nelle aree della periferia, il rischio più grande è quello di averlo a una distanza sempre maggiore, con zone territoriali scoperte dalla rete dei medici di famiglia”.
Eppure la soluzione ci sarebbe. “La ricetta passa dalla valorizzazione del medico, dell’operatore sanitario come cardine del Servizio sanitario nazionale. Bisogna investire maggiormente nella formazione di un numero sempre più elevato di medici, specializzando più medici, laureando più medici, formando più medici di medicina generale e soprattutto- conclude De Lillo– rendendo attrattiva questa professione e impedendo che i nostri giovani vadano all’estero, dove i medici hanno retribuzioni più alte”.
Nel frattempo la manovra governativa lascia presagire che niente di nuovo si farà per correre ai ripari sia sul fronte del personale sanitario e della sua qualifica sia sul fronte del dissesto del servizio sanitario in termini di posti letto, di strutture, laboratori, per diminuire le liste di attesa che stanno creando forti disagi alla popolazione. Lilia Cavallari, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, ovvero l’ufficio incaricato di garantire la trasparenza e l’affidabilità dei conti pubblici (in pratica uno degli organismi di vigilanza), mette in luce gli effetti negativi della manovra di Governo.
“Malgrado l’incremento del finanziamento del Servizio sanitario nazionale (2,15 miliardi per il 2023, 2,3 per il 2024 e 2,6 dal 2025), nell’orizzonte della programmazione finanziaria non sembra essere contemplato un potenziamento del sistema sanitario.“ Si legge nel documento presentato alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato.
“La spesa sanitaria programmatica, si riduce fino al 6,1 per cento del PIL nel 2025, un valore inferiore anche rispetto al periodo pre-pandemia (6,4 per cento nel 2019, rispetto a una media UE del 7,9 per cento).”
In pratica la Pandemia non ci ha insegnato niente. Se dovesse accadere di nuovo saremmo da capo con le solite carenze di posti letto, di macchinari, di personale e via dicendo
“La situazione dei servizi di pronto soccorso – si legge nel documento– è ormai difficilmente sostenibile. Nel caso dei medici, le remunerazioni non sono state adeguate nel tempo e l’indennità specifica per il pronto soccorso non viene ancora corrisposta, mentre si diffondono forme contrattuali diverse dal lavoro dipendente, mediate da cooperative, con aumenti dei costi e un impatto sfavorevole sull’organizzazione dei servizi. L’estensione del regime forfettario (flat tax n.d.r.) per i lavoratori autonomi prevista dalla manovra potrebbe contribuire a incentivare l’opzione per la libera professione nel privato.”
Sostenere che la guerra in Ucraina ci ha sottratto risorse e che ha portato come conseguenza aumenti nei costi energetici e nei beni di consumo, è vero ma non basta. Non si possono fare tagli sul servizio sanitario pubblico da cui dipende la salute dei cittadini e l’efficienza dello Stato. Non si è intervenuti sugli extraprofitti di Banche e Assicurazioni, Aziende farmaceutiche e Società energetiche per non scontentare compagnie potenti con amicizie altrettanto potenti e così tutto il peso dell’inflazione e della crisi torna sulle famiglie.
In queste settimane ha fatto molto scalpore un intervento del Governatore della Campania Vincenzo de Luca, sui quiz dei concorsi per l’ammissione a medicina. Il Governatore ne ha parlato di nuovo da Fabio Fazio domenica scorsa a Che tempo che fa sul Canale9. Quiz che non hanno nulla a che fare con la specializzazione per cui si concorre e che farebbero innervosire anche un esperto di rebus e di parole crociate. Tutto questo mentre abbiamo bisogno urgente di figure professionali nella sanità. “La situazione del personale sanitario è drammatica. Ha detto il Governatore. Non riusciamo più a fare i turni perché vi sono carenze in alcune specialità. Perché facciamo i concorsi e i medici non partecipano. Oppure chi partecipa e vince il concorso, dopo un po’ chiede il trasferimento in un altro ospedale e noi non abbiamo strumenti per impedirlo. Allora cominciamo a stabilire che quando si fanno i concorsi per l’area emergenza-urgenza, chi vince deve rimanere almeno 3-5 anni nell’ospedale dove ha partecipato al concorso”.
Così il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, in un post su Instagram.
“Poi c’è un problema della parte retributiva: non regge più una situazione per la quale un medico che lavora in un reparto di medicina generale ha la stessa retribuzione di un medico che sta in un pronto soccorso. È evidente che bisogna differenziare le retribuzioni, così come bisogna differenziarle per chi lavora in aree disagiate. Dopodiché se vogliamo risolvere in maniera strutturale nel lungo periodo il problema della carenza di personale dobbiamo fare una cosa semplice: aprire le facoltà di Medicina, non bastano 4mila iscritti in più. Togliamo il numero chiuso a Medicina! La selezione si fa sul campo. In questa situazione di emergenza bisogna prendere decisioni straordinarie”.
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