Tempi duri per la scuola italiana.
Mentre migliaia di diplomandi attendono con ansia i risultati del loro esame, è la scuola italiana ad essere bocciata dall’Ocse, perché considerata un Paese che non valorizza l’istruzione, con un corpo docente tra i più anziani e un numero di laureati veramente molto basso.
Questi sono i dati che l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che riunisce i 34 Paesi più industrializzati del mondo) riporta nel rapporto ‘Education at Glance’, nel quale è rilevato che solo il 15% dell’intera popolazione italiana (tra i 25 e i 64 anni) ha conseguito un’educazione di livello universitario (dati che si riferiscono al 2011), contro la media del 32% che caratterizza gli altri Paesi.
Non solo, l’Ocse ha anche bocciato le dotazioni multimediali e l’uso delle tecnologie e dell’informazione (Ict) del nostro sistema scolastico.
Nel 2011, infatti, solo il 30% degli studenti italiani di terza media ha fatto uso delle Ict come strumento di apprendimento durante le lezioni, mentre il dato medio degli altri Paesi si attesta intorno al 48%.
E insomma, anche se nel 2013 la scuola italiana si è vantata del fatto che le tracce della maturità sono arrivate via web, l’Ocse ci ricorda che questo non basta.
Secondo l’Organizzazione, infatti, il piano, lanciato nel 2007 dal Miur, “utilizza le sue modestissime risorse finanziare per attuare una visione realistica e ambiziosa dell’innovazione: le scarse risorse del Piano – sottolinea l’Ocse – hanno limitato l’efficacia delle sue diverse iniziativa. È soprattutto a causa della mancanza di risorse più che di una scarsa domanda da parte delle scuole e degli insegnanti, che la presenza delle dotazioni tecnologiche nella aule è ancora molto bassa”.
Nel dossier dell’Organizzazione, si legge che il Piano Italiano per la Scuola Digitale “ha stanziato 30 milioni di euro l’anno per 4 anni, ossia meno dello 0,1% della spesa pubblica per l’istruzione (meno di 5 euro per studente di scuola primaria e secondaria all’anno). Un aumento significativo delle risorse attraverso finanziamenti pubblici o privati è una condizione necessaria al successo del Piano così com’è attualmente configurato”.
Inoltre, nei dati forniti dall’Ocse, si legge che l’Italia riserva il 4,8% del Pil a scuola e università, contro la media Ocse del 6,1%.
Stima, questa, che ci fa classificare al terzultimo posto, primi solo alla Slovacchia (4%) e alla Repubblica Ceca (4,5%).
Inoltre, l’Ocse punta il dito anche contro i bassi salari destinati agli insegnanti. Mentre gli stipendi dei nostri professori, dal 2000 al 2009, sono diminuiti dell’1%, nel resto dei Paesi Ocse, in media, sono aumentati del 7%.
Non solo: per poter ottenere il massimo salariale, un professore italiano deve attendere di aver maturato 35 anni di servizio, mentre, in media, negli altri Paesi Ocse, ne bastano 24.
Quindi, non solo i docenti italiani guadagnano circa il 40% in meno rispetto ai colleghi di altri Paesi con lo stesso grado di istruzione, ma, in più, lavorano quasi il doppio, visto che in Italia, gli alunni tra i 7 e i 14 anni, passano a scuola più di 8 mila ore, contro le circa 6 mila degli altri Paesi Ocse.
A preoccupare l’Ocse, c’è anche il dato dell’anzianità anagrafica del corpo docenti: il 60% dei professori italiani, ha superato i 50 anni di età. Segnali che in questo Paese, non solo in politica, non esiste un ricambio generazionale, e che l’Italia è un Paese sostanzialmente inadatto al rinnovamento e al cambiamento.
Insomma, nonostante l’elevato (elevatissimo) livello della nostra spesa pubblica, l’istruzione italiana produce scarsi (scarsissimi) risultati.
Questo perché bisogna fare necessariamente i conti con le restrizioni di bilancio, con i continui tagli (orizzontali, e quindi danneggianti) che vengono praticati. Inoltre, bisogna anche considerare che i soldi messi a disposizione, vengono spesi male, destinati a fini secondai o a priorità rese tali, ma che priorità non sono.
Quindi, non solo pochi soldi, ma spesi male. Per esempio, abbiamo speso milioni di euro, sottratti alle Università, per devolverli alle scuole private.
In conclusione, i Paesi più avanzati, si rendono competitivi per restare sul mercato, e hanno capito che per essere competitivi, c’è assolutamente bisogno di investire anche sull’istruzione e di rendere i giovani una garanzia per il futuro.
Chissà quanto servirà al nostro Bel Paese per capirlo.
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