LA TERRA DEI FIGLI
Film – Italia 2021, durata 120’. Regia di Claudio Cupellini, che ne è anche co-sceneggiatore. Con Leon de la Vallée, Paolo Pierobon, Valeria Golino, Valerio Mastandrea, Maurizio Donadoni, Pippo Delbono, Maria Roveran. Dal 1° luglio, al cinema.
Non voglio dirlo troppo presto per dovermi poi mordere la lingua, ma si colgono timidi segnali che il cinema di casa nostra provi a liberarsi dal complesso di non volersi abbassare ai film di genere. Chi vi scrive ha del genere un alto concetto, in tutte le sue forme; d’altro canto il cinema italiano, quando non era ancora afflitto da complessi intellettualistici e da una generalizzata catalessi del talento, ha dato nel genere – commedia, storico, poliziesco, noir, western, horror… – prove che sono rimaste, e prese a modello dai bei cineasti stranieri. A breve su queste pagine vi porterò un altro esempio, fra le uscite di questi giorni.
Ma parliamo de La terra dei figli, diretto da un Claudio Cupellini che sapendo di essere bravo, e sbrigliato nel passare da una cosa all’altra, qui ci offre una storia, tratta dalla graphic novel omonima di Gipi, che ci paracaduta nel fantasy distopico. Avendoci fornito in passato prove tanto eclettiche (anche se lui rifiuta il termine) quanto convincenti; perché qui l’eclettismo non è un limite, anzi: precedenti come “Una vita tranquilla”, “Alaska”, vari episodi della serie “Gomorra” ci dicono che Cupellini restituisce alla professione di regista quell’alto valore artigianale che il cinema americano ben conosce e valorizza da sempre, riconoscendo l’”autorialità” nel mestiere corredato di stile, e non necessariamente nell’omogeneità degli oggetti raccontati.
Chi non è attratto da fantasy e fantascienza non si faccia fuorviare dall’etichetta di genere: in questo film non ci sono magie, tecnologie futuribili o algoritmi perversi, navicelle e teletrasporto; siamo al contrario in quel filone che in altre parole potremmo sintetizzare in “Come abbiamo potuto ridurci a questo?!”.
In un futuro che dagli abiti (sporchi e sbrindellati) e dai manufatti umani sembrerebbe addirittura prossimo, la vita dei pochi superstiti a uno scatafascio ambientale è ai minimi termini della sopravvivenza: vivere seminascosti, homo homini lupus, baratto di beni del passato talvolta per un pesce secco, per una pelle o un pezzo di carne di animale improbabile. Nei rarissimi nati “dopo i veleni”, nessuna memoria del passato, nessun progetto, poche abilità residue fra cui manca quella della lettura. E il protagonista, per l’appunto un ragazzo semi-selvatico, si ritrova a dover fronteggiare tutto questo in prima persona e da solo, custodendo un diario che non sa decifrare.
Ci restano negli occhi i paesaggi mortalmente e fintamente quieti, quasi monocromatici, del Delta del Po, dove avvengono i fatti; e anche qui, onore all’aver contrapposto alle megalopoli degradate o alle lande di tanti film (anche notevoli) hollywoodiani una scena nostrana, finora associata a ben altre suggestioni. Le tracce dell’antica operosità ormai ridotte a malinconica reliquia, quando non a sinistra minaccia.
Sottolinea il paesaggio la giusta colonna sonora di Francesco Motta: scarna, essenziale, che dà voce ai silenzi, allo sciacquio delle paludi, di tanto in tanto perforati da un canto quasi gregoriano.
La vicenda c’è; ma non nel senso di azione incalzante, attese thriller, insomma adrenalina: qui l’attenzione è tenuta viva dallo stare sulle persone e sulle cose, cercando di anticiparne retropensieri, sviluppi, ritrovarvi tracce di perduta civiltà. A questo concorrono le ottime interpretazioni di un cast che, oltre a facce nuove ma appropriate, esibisce, talvolta in ruoli-cameo, attori di lungo corso cinematografico o teatrale; quasi irriconoscibili sotto trucchi e strati di sporcizia. Quanto al protagonista, Leon de la Vallée: faccia nuova allo schermo, funzionale a rendere quel senso di famelico che vuol capire di più. Cercherò di dimenticare che nella vita fa il rapper-trapper di successo.
Senza ricorrere a truculenza e situazioni estreme, tutto concorre a rendere la desolazione esterna ed interiore di un mondo che sta perdendo la memoria.
Il modo di narrare è dolente e mai autocompiaciuto; in questo molto distante dall’altra recente sortita nel post-apocalittico di ambientazione italiana: la serie Anna di Niccolò Ammaniti su Sky, che invece gronda deliri estetizzanti da “quanto sono bravo”.
Semmai un accostamento – stilistico e di merito – possiamo farlo con The Road di John Hillcoat dal romanzo di Cormac McCarthy, anche quello centrato su un rapporto padre-figlio: stesso tono sfinito ma ostinato, stessa cura visiva, stessa assenza di orizzonte.
Se solo l’andamento del racconto avesse concesso qualcosa di più al ritmo, governando un po’ il battito cardiaco dello spettatore; se per rendere meglio l’effetto finale non si fosse caricata la figura del Padre di una durezza che rasenta l’eccesso di zelo, questo film potremmo dirlo esemplare.
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