La trattoria di Centocelle dove si mangiano solo prodotti dei contadini del Lazio
i ristoratori devono essere alleati degli agricoltori e lavorare sulla qualità e sull’artigianalità delle materie prime, o tutto sparirà
La trattoria Proloco Dol, al numero 35 di via Panaroli, da 10 anni è l’unica insegna romana, insieme alla gemella di Trastevere, che a pranzo e a cena propone solamente ingredienti regionali. Solo questa ristorazione può salvare il made in italy che c’è nell’agricoltura di qualità e nel rispetto del paesaggio
Una trattoria che propone solo ingredienti Dol, di origine laziale. Un marchio ovviamente inventato ma suggestivo. Si chiama Proloco Centocelle. Da 10 anni mantiene questa sua politica propositiva a favore dell’agroalimentare laziale.
Merito va dato al titolare Vincenzo Mancino e al nuovo chef Carlo Fiorini, che viene da una osteria slow a Veroli. Sul bancone di sette metri si alternano le proposte di circa quaranta aziende laziali. Formaggi, salumi, legumi, pasta e altri prodotti da asporto. Il cliente può anche chiedere un tagliere di formaggi e salumi nella sala da pranzo, con pareti verde mare e un’enorme lavagna dove si legge il menu del giorno.
Vini laziali da abbinare con le pietanze del territorio ma anche pietanze e ingredienti Dol
Sulla lavagna ci sono segnati una manciata di birre artigianali locali, oltre a molti vini a prezzi convenienti provenienti da tutta Italia. Non mancano poi i rossi a base di Cesanese e i bianchi a base di Trebbiano del Lazio, che ben si abbinano ai piatti realizzati con ingredienti della regione.
Alla Pro Loco DOL si arriva in 30 minuti d’auto dal centro di Roma. Un viaggio che vale la pena fare per la sua cucina a base di questi ingredienti Dol, provenienti da piccoli produttori di tutto il Lazio. Ci sono piatti di carne e formaggio, pasta e secondi, oltre a pizze a base di farina biologica e impasto fermentato per 48 ore. La pizza in teglia si presenta con due condimenti diversi, uno su ciascuna metà, come mozzarella di bufala, patate e rosmarino o pancetta, mele e cipolle.
Un modo per dare una identità a una regione che se la sta costruendo anno dopo anno
L’iniziativa è molto interessante e mi stupisco che non ce ne siano altre simili di cu venire a conoscenza. Ci vuole coraggio ad essere assolutisti ma sei a Roma, una città che abbonda di cittadini trasferitisi dal resto della Regione, che adorano il proprio territorio e la propria gastronomia, è matematico che questa offerta incontri i favori della clientela. Il Lazio è una regione che non esiste dal punto di vista della cultura, della tradizione e ancor meno per l’idioma. Tra le province ci sono differenze enormi, sotto tutti gli aspetti, forse meno sotto quello storico politico, visto che qui hanno sempre dominato il papato e i signori delle nobiltà papalina. Ma per la gastronomia le differenze sono abissali e gli ingredienti diversissimi.
Ci vuole coraggio nel credere in operazioni come queste ma è l’unica cosa sensata da fare
Unificare il territorio in un menù è quindi un’operazione al tempo stesso coraggiosa ma fondamentale, necessaria direi, a costituire una identità che altrimenti manca. Oggi Roma consente questa identità basandosi prevalentemente sui primi piatti e alcune prelibatezze romane, di origine ebraica, accanto a una serie di ingredienti e pietanze che invece arrivano dalla tradizione reatino-abruzzese, come l’amatriciana o da quella campana come le pietanze di Gaeta, alici, tiella e olive nere, o maremmana come le acque cotte e gli stufati viterbesi.
Da ogni provincia arrivano pietanze storiche che collegano i territori alla capitale
I piatti forti con cui il cuoco cerca di conquistare i suoi commensali sono di evidente ispirazione contadina sia nel nome che nella realizzazione. Le polpette garofolate di Veroli, aromatizzate ai chiodi di garofano, con carne di castrato cotto nel pomodoro, tritato e assemblato in tante polpette fritte in bianco e poi servite nel sugo rosso del castrato, sono una goduria per il palato.
L’altro piatto molto romanesco della pajata alla cacciatora, di fatto lega la cucina della capitale all’entroterra ciociaro, dove il castrato è di casa e dal quale territorio arriva a Roma. Ugualmente ci sono carni che vengono da bovini allevati in Sabina, facendo capo a Rieti, una provincia originariamente più umbra che laziale, con molte influenze abruzzesi. Gli agnelli del reatino sono quelli di razza Lacaune, con i quali si prepara l’agnello brodettato, ricetta antichissima, tanto che andrebbe riconosciuta una medaglia di valore storico per chi l’abbia riesumata.
Degustazione di prosciutto al Proloco Dol di Centocelle – foto da sito Facebook
Polpette, carni del quinto quarto, agnello broccoli, paste ripiene inattese
Personalmente, pur apprezzandole moltissimo, sono stanco di identificare Roma e il Lazio con le solite carbonara, gricia e amatriciana. Sinceramente c’è di più. Certi titoli non possono mancare in una osteria che operi in Roma ma al cliente locale si deve poter offrire delle varianti che non sono di secondo livello. Per esempio il raviolo ripieno di broccolo romanesco di Mauro Secondi condito con la stracciatella e burro (delle vacche frisone di Segni) è una opportunità per assaggiare qualcosa di non scontato. Un a pasta ripiena non te l’aspetti, perché da tempo scomparsa dai radar della città, sovrastata da cannelloni e ravioli emiliani, lasagne e tortellini. La tendenza del cliente è di omologare tutto e chiedere piatti di diversa origine nei posti sbagliati. Mentre la bellezza dell’Italia è la sua diversità culturale che si esprime nei volti e nelle gastronomie, anche se il generale Vannacci non lo sa e pensa che siamo un popolo unto nei tratti somatici e nelle discendenze. Niente di più falso e lontano dalla realtà. Siamo diversi, e tanto, da Nord a Sud e da Est a Ovest e questa è la nostra ricchezza.
Anche se non lo sa ancora Vincenzo Mancino è di diritto un Oste Custode
Nelle sue dichiarazioni c’è la filosofia che lega in un connubio virtuoso l’Oste all’Agricoltore e al Cliente che li sostiene con la sua scelta economica, in un tentativo di mantenere vive le tradizioni e le colture agricole osteggiate dalla grande distribuzione. “La ristorazione è a un bivio – sostiene Mancino– Sempre più la socialità si sposta nel fuori-casa, in una convivialità che si svolge nei locali, bar, pizzerie o ristoranti che siano. Dunque, la ristorazione avrà un ruolo e un peso sempre più importanti sia a livello sociale che a livello economico: o ci convinciamo che i ristoratori devono essere i primi alleati degli agricoltori e basare il proprio lavoro sulla qualità e sull’artigianalità delle materie prime, o tutti i luoghi che abbiamo visitato nei piatti di questa sera scompariranno: chi porterà più mucche, agnelli e pecore al pascolo? Chi terrà in ordine la collina e le terre interne? Chi terrà pulita la campagna? Se vince l’industria, il made in Italy gastronomico scompare: avremo materie prime solo dall’estero e qui l’industria le lavorerà. Ma non è più made in Italy. Non solo: i territori chi li terrà in ordine? Chi si occuperà dell’ambiente, del paesaggio? Ecco, la ristorazione deve diventare lo snodo di queste tematiche e farsi alfiere, paladino, difensore della nostra biodiversità».