Religione

La vera grandezza del Discepolo

Con questo brano (Mc. 9, 30-37) siamo nel contesto ampio del cammino di Gesù con i discepoli sulla strada verso Gerusalemme. Gesù rivela ancora gli “eventi ultimi”, aprendo i suoi all’”esperienza di comprensione o incomprensione” e all’”identità” sempre più profonda di Gesù che coinvolge anche il lettore. Oggetto esplicito degli insegnamenti di Gesù sarà la passione-morte-risurrezione, anticipata dai suoi annunci, e una serie di istruzioni rivolte ai discepoli e alla folla.

La Passione e la vera grandezza

Gesù e i discepoli “attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (vv. 30-31). Gesù istruisce i discepoli sulla vera identità del Messia. Il verbo “insegnava” sottolinea un insegnamento continuativo che avviene mentre si cammina. La morte di Gesù è il risultato della consegna (tradimento) da parte degli uomini. Il passivo (viene consegnato) sembra essere una maniera delicata per evitare di nominare “Dio”. Il “Servo del Signore” (Is. 53) è consegnato da Dio e “consegna sé stesso” fino alla morte. L’azione di Dio, espressa con il verbo “risorgere” al futuro, esprime certezza, una sicurezza assoluta. Per Gesù il progetto divino non è di distruzione, ma è costruttivo di vita piena e di speranza per tutta l’umanità.

La reazione dei discepoli è di incomprensione: “Essi però ‘non capivano’ queste parole e avevano timore di interrogarlo “ (v. 32). Il verbo “non capire” indica una connotazione teologica di rifiuto di Dio. I discepoli non capivano cosa intendesse Gesù quando parlava della consegna, della morte e della risurrezione del Figlio dell’uomo. L’evangelista Marco non chiarisce la paura di domandargli spiegazioni: attesta tutto lo shock che tali insegnamenti di Gesù provocano. Dal contesto si tratta dei loro sentimenti interni: i discepoli non riescono a entrare nella prospettiva di Gesù, quando afferma di avere di fronte a sé un futuro che passa attraverso la sofferenza e la morte.

Insegnamento sull’accoglienza reciproca

Gesù torna insieme ai Dodici a Cafarnao, città che costituiva il suo punto di riferimento. Entrati in casa chiede: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?” (v. 33). Il silenzio imbarazzato degli Apostoli non è più per timore, ma per vergogna, perché “per strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (v. 34). Sedendosi, parla direttamente a coloro che ha chiamato e sta formando a diventare le guide della comunità, in quanto gli apostoli sono i più esposti al pericolo di esercitare tali compiti per una forma di prestigio personale. Perciò intende rovesciare lo stile di chi detiene un ruolo di guida nella comunità a lui contemporanea.

Non sono, infatti, il prestigio o il potere personali i moventi di chi assume una responsabilità ecclesiale, bensì l’accoglienza e il servizio: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (v. 35). “Diakonos” (servo) indica la disposizione interiore che si deve avere, non l’ufficio, cioè la natura e la qualità dello spirito nuovo secondo il progetto di Dio nell’agire con Cristo.

A tale parola Gesù fa seguire un gesto simbolico, che illustra come egli intenda la centralità dell’accogliere e del servire con le sue conseguenze: “Preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato” (vv. 36-37). I Dodici discutono su chi di loro sia “più grande” e Gesù pone al centro della comunità “un bambino” abbracciandolo teneramente.

Con il termine “paidion” (bambino) viene indicata una larghissima categoria di persone: tutti coloro che in qualsiasi maniera abbisognano di un aiuto, morale, fisico, intellettuale, come i bambini. Si riferisce a colui che si trova in una condizione di piccolezza-debolezza sia fisica, sia psicologica, come chi è fragile e ha bisogno del sostegno e di attenzioni da parte dei responsabili della comunità. Da ricordare che nel mondo antico e palestinese il bambino era considerato privo di diritti, di tutela o di garanzia; cosa più importante, in aramaico il termine “talyah” (bambino) significa anche “servo”. Capiamo meglio così il legame tra la parola di Gesù sul farsi “servi” e il gesto di porre il bambino al centro della riflessione dell’insegnamento agli apostoli.

Un insegnamento per la comunità

L’azione profetica di Gesù è quanto mai realistica. Al centro dell’attenzione della vita comunitaria Gesù maestro chiede che vi siano i piccoli, che, secondo la sua prospettiva, diventano i veri grandi, anzi i più grandi. Con tale insegnamento Gesù pone l’accento non soltanto sul bambino, ma anche su “colui che accoglie”. Ricevere un piccolo significa ricevere Gesù e anche colui che lo ha mandato, Dio Padre.

Accogliendo questi “piccoli” accogliete me e in me il Padre. Sono questi lo stile e la logica di Gesù, basati non sulla prepotenza o sull’arroganza del potere umano, bensì sulla debolezza e sulla fiducia del Figlio di Dio, che muore e risorge a favore di tutti coloro che vivono uno stato di fragilità. Nei piccoli, nei deboli, nei fragili c’è Gesù e si accoglie il Padre che l’ha mandato: questo insegna il maestro ai Dodici con l’antitesi ambizione/umiltà, grande/piccolo, primo/ultimo, e ciò richiede a loro e a noi un cammino di conversione per modificare la condotta.

O Signore, siamo troppo presi dai nostri progetti per prendere sul serio le tue parole, perché esse facciano breccia nei nostri cuori protesi verso il successo che ci attende. Siamo anche noi come i tuoi apostoli: non ci piace affatto l’idea di trovarci disarmati di fronte a chi ha voglia di rovesciarci addosso tutta la loro cattiveria, di farcela pagare perché risultiamo antipatici per le nostre parole, i nostri gesti, per il modo in cui viviamo il Vangelo.          

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.

Redazione

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